Rodin-Balzac, una detective story per la veste da camera

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E se fosse una detective story? Se cioè gli indizi disseminati, fino al 2 marzo, nelle stanze d’esposizione del Musée Rodin – accanto al sontuoso hôtel particulier che ospita le raccolte personali dello scultore, donate per sua espressa volontà allo stato francese – fossero nientemeno che le tracce di un’investigazione privata, condotta per ricostruire un preciso identikit e svelare la fisionomia di un personaggio celebre ma misterioso?

Un simile filo narrativo spiegherebbe meglio la suspense crescente che, di sala in sala, elettrizza il visitatore lungo la mostra – Corps in-visibles: Une enquête autour de la Robe de chambre du Balzac, a cura di Marine Kisiel e Isabelle Collet; e d’altronde, la stessa storia al centro del progetto, quella di un uomo alla ricerca di un altro uomo, costituisce il plot più frequentato dalle uscite numerose della série noire di Gallimard.

Perché certo, alle curatrici incaricate di far collaborare l’elegante istituzione di rue de Varenne col non meno scenografico Musée Galleria nel cuore del sedicesimo, interessa gettar luce sulla nascita del primo monumento moderno (Rosalind Krauss dixit) e cioè la statua di Honoré de Balzac, mai collocata quando Rodin era ancora in vita ma concepita dall’artista come un’icona filiforme e colossale, la simbiosi contraddittoria fra una specie erbacea e la solida roccia nelle serre calde dell’art nouveau europea.

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Ancor più, tuttavia, preme loro il racconto di quanto la concezione di quella scultura germinasse da un appuntamento impossibile, quello cioè fra Rodin e lo scrittore, morto nel 1850 quando l’altro aveva appena nove anni: nonostante quest’ineluttabile dissincronia generazionale, il più giovane maestro – ricevuta la commissione nel 1891 dalla Société des Gens de Lettres – si sarebbe dato a un inseguimento spossante, affinando via via le armi della propria indagine e coinvolgendo una fitta rete di informatori. Per risolvere il problema del viso e del corpo, da tradursi nella malleabile e infuocata materia del bronzo, Rodin sarebbe partito dal più maniacale fra i lettori di Balzac, il visconte Spoelbergh de Lovenjoul, che ricevendolo nella propria residenza bruxellese gli avrebbe illustrato una collezione sconfinata di autografi ed ephemera, dalle caricature ai souvenirs, dalle miniature alle reliquie: soprattutto gli avrebbe fatto conoscere la sola ‘istantanea’ per la quale l’autore aveva scelto di posare nel maggio 1842, davanti all’obiettivo di Louis-Auguste Bisson.

 

«Étude de robe de chambre pour Balzac», 1897, gesso © Agence photographique du musée Rodin, Jérome Manoukian

Sono le note di un carnet d’appunti e d’interrogatori che ancora documentano un’inchiesta poliziesca: mancano però il disegno a tutto tondo, gli affetti riposti dietro alla maschera del volto, soffermandosi piuttosto su testi e osservatori partigiani, mossi dalla soggezione o dal troppo amore.

È dunque agli strumenti del romanzo sperimentale – così come lo aveva teorizzato Émile Zola in un’antologia del 1880 – che Rodin si sarebbe in seguito rivolto, progettando con decisione un sopralluogo a Tours alla ricerca non tanto di consanguinei del romanziere, oriundo di quel luogo, ma soprattutto di campioni affini, per sembianze e per costituzione, al suo tipo d’incorreggibile viveur. Ne avrebbe quindi riconosciuto i tratti e il ventre in un pingue carrettiere, noto sotto al nome di Estager; lo avrebbe fotografato e poi fissato nel gesso, offrendo all’odierna esposizione un pallido corpo del reato, la silhouette su cui modellare i ‘primi pensieri’ della statua. Proprio in quella provincia s’accumulano, però, i dati essenziali di una svolta profonda, capace, in seguito, di distoglierlo da un ritratto naturalista, impigliato nel peso dell’epidermide e nella statica grave di una posa volitiva, per muovere verso il simbolo, secondo una parabola consapevolmente affrontata in mostra e posta sul crinale fra due stagioni estetiche.

Se infatti il determinismo geografico avrebbe condotto a una soluzione «eroica», ancorata al nudo e infine trascurata (più per intima insofferenza che per le repliche moralistiche dei committenti), il monumento si sarebbe presto nutrito di altri dati, non meno ovvi e connessi rispetto a quelli accolti da una certa teoria derivativa delle fisionomie e degli spiriti vitali. È a Saché, villaggio a trenta chilometri da Tours, che Rodin ottiene dalle mani del sarto René Pion le misure dello scrittore, servite per preparargli completi impeccabili, secondo cartamodelli aderenti: ed è dunque a partire di qui che l’artista rivedrà la sua ispirazione iniziale, muovendo in un senso differente. Perché se presto sarà abbandonata pure l’immagine di un Balzac habillé, squisito dandy della vita moderna, è nel senso di una figura drappeggiata che il processo creativo giungerà comunque a un esito finale, felice e imprevisto.

L’artista assumerà cioè l’esigenza di ammantare il suo soggetto, di ricoprirne le membra di una pelle non meno allusiva di quella, luminosa, cutanea, offerta impudicamente allo sguardo dello spettatore: e – complice un’abitudine risaputa del romanziere, avvezzo a indossare (almeno in leggenda) un saio di monaco per le sue lunghe, confortevoli sedute di scrittura – ne avvolgerà la silhouette corpulenta in una lunga veste da camera, negligentemente appesa alle spalle ampie, di fiero boxeur delle lettere.

Che questo motivo sia stato, di fatto, il motore d’invenzione per il disegno finale della statua (mai messa in opera) è comprovato dalla sopravvivenza, al Musée Rodin, del calco ‘autonomo’ della vestaglia, servito per comporre il modello conclusivo del Balzac, assieme al potente plasticismo del suo volto fiero: manufatto perturbante, racconto fragile di un vuoto, come lo definisce Marine Kisiel nel libro Dérobades, che serve pure da catalogo; e tuttavia la più verisimile fra le effigi dell’autore, riassunto infine nella metafora perfetta di un’opera fluviale, che aveva raccontato la società contemporanea con lo sguardo dell’entomologo.

Perché in fondo la mostra, pur servendosi della moda, non fa della moda il proprio argomento, nel limitarsi a studiare gli attributi iconici di un’allegoria potente quanto il capolavoro rodiniano. Vuol semmai dimostrare che lo scultore, concentrandosi in ultimo sull’abito della sua figura, stava ricordando quanto i costumi – les mouers – fossero il nucleo incandescente de la Comédie humaine, quanto lo stesso Balzac avesse affermato, nel Traité de la vie élégante, che «la vie extérieure est un système organisé qui représente un lioniuie aussi exactement que les couleurs du colimaçon se reproduisent sur sa coquille».

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