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Il rischio dazi Usa che sta turbando il sonno dei viticoltori (e non solo) italiani, non poteva non essere oggetto di uno dei convegni che stanno animando la piccola arena Demeter, all’interno di Slow Wine Fair a Bologna. La seconda giornata della kermesse si è aperta proprio con questo dibattito moderato da Roberto Fiori, giornalista La Stampa e Il Gusto che ha esordito con il dato reso noto da Federvini in collaborazione con Nomisma che tocca tenere d’occhio: “Circa il 30% dei vini italiani viene esportato negli Usa. Una tendenza al momento stabile sulla quale però grava la minaccia dei dazi, ma non solo. Perché anche le nuove inclinazioni dei consumatori stanno cambiando”. Una prima rassicurazione viene da Mirella Menglide, International Trade Analyst at Italian Trade Commission New York – ICE, che ha aperto il suo intervento parlando di una crescita del 6% nel 2024, in valore e quantità. “Molti importatori al momento sostengono che non sia necessario fare scorte, sono ottimisti e piuttosto sicuri che i dazi non toccheranno il vino e in generale i prodotti italiani. È vero però che proprio negli Stati Uniti è cresciuta l’attenzione verso il benessere e che i giovani hanno praticamente smesso di bere alcolici. Soprattutto la Gen Z e i Millennials. Al massimo acquistano una bottiglia di vino ogni tanto ed è indubbio che ciò traini i consumi verso il basso”.
A livello generale, il bianco rappresenta circa la metà del vino italiano importato negli Usa “ma i ristoratori sono in difficoltà – prosegue Menglide -, c’è incertezza e preoccupazione, temono i rincari e spendono per lo stretto necessario”. Ad agitare ulteriormente gli animi lo spauracchio di un neo proibizionismo, sostenuto dal governo americano e che sembra coinvolgere solo il mondo del vino tra dry january, october sober e altro “mentre della marijuana non si parla, è legale e i giovani non la disdegnano”. E nemmeno è possibile pensare che le bevande no/low alcol rappresentino una valida alternativa, poiché al momento non sembrano incontrare il gusto del consumatore americano. “L’Ice attraverso la promozione vuole mantenere la ‘dinner culture’ del vino, rappresentandolo non come un bene di lusso, bensì come degno accompagnamento del pasto”. A garantirci un margine di tranquillità è il rapporto qualità – prezzo del vino italiano, e se altri stati iniziano a piegare le ginocchia, il Cile svetta con i suoi prodotti a tutto frutto, rappresentando un mercato in forte crescita.
Altro tema “caldo” introdotto da Roberto Fiori è la complessità delle leggi americane, diverse per ogni stato e che i produttori devono necessariamente conoscere. Costituire una società negli Usa diventando importatore, per le aziende che se lo possono permettere, sarebbe l’idea da percorrere, importando anche vini delle regioni meno conosciute, e di fatto investendo nel mercato americano. “È fondamentale che produttori e importatori lavorino insieme – ha sottolineato Giuseppe Lo Cascio, Co-Founder and Managing Partner Lucidity Wine -. Il mercato americano ha il trade migliore al mondo, è dinamico e florido, contrariamente a quello di Cina e Germania. Certamente il cambio demografico ha rappresentato una nuova generazione di consumatori a cui dobbiamo saper parlare”. Proprio il tema della comunicazione sembra essere centrale per avere una chance di conquista, dal momento che “abbiamo reso un prodotto complicato ancor più complicato, poco comprensibile, quindi è necessario semplificare e aggiornare il linguaggio snellendolo da tecnicismi e arricchendolo con uno storytelling appropriato e personalizzato a seconda dell’interlocutore”.
Un concetto su cui tutti sembrano essere d’accordo, quello della semplificazione, appoggiato anche da Luca Venturelli, Senior Account Executive, Colangelo & Partner: “Da quarant’anni il vino viene comunicato sempre allo stesso modo, ma abbiamo difronte una generazione nuova, diversa. Su questo forse i produttori hanno poco margine di manovra, ma le varie istituzioni e consorzi dovrebbero rendersene conto. A trarre vantaggio da ciò sono le grandi multinazionali a cui basta cambiare colore all’etichetta per guadagnare maggiore appeal verso i giovani. Purtroppo non esiste più il cosiddetto messaggio pigliatutto, ne dobbiamo elaborare tanti, nuovi e diversi tra loro”. Un aiuto può giungere dal cambio generazionale anche dei viticoltori, suggerisce Roberto Fiori, che senza dubbio avvantaggia un dialogo più fluente tra simili, anagraficamente parlando.
Convinto dell’urgenza di creare una comunicazione del vino più moderna anche Alessio Piccardi, Fondatore e amministratore delegato Fieramente: “Sono convinto che il rilancio dei consumi passi attraverso la comunicazione. Suggerisco un maggiore ottimismo che in generale oggi è carente. Curiamo maggiormente le vendite dirette e l’hospitality, in questo l’Italia è avvantaggiata, cerchiamo di trasformare la paura in opportunità. Oggi l’utente medio Usa ha una maggiore cultura sul vino, ama l’Italia e la sua diversità. Ma ricordiamoci che l’America è grande, gli stati sono tanti e bisogna conoscere le tendenze in atto in ognuno di questi”. Il convegno si è infine concluso con una breve riflessione sulla ristorazione made in Italy negli Stati Uniti, che al momento gode di ottima salute soprattutto riguardo ai numerosi locali dove la qualità è alta. La diffusione del concetto “Buy american”, per il momento, sembra non impensierire.
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