Tre anni di guerra in Ucraina: 5 domande e 7 grafici per fare chiarezza  

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La giornata di oggi segna il terzo anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina. Sulla scia del possibile riavvicinamento tra Washington e Mosca inaugurato da Donald Trump e l’incertezza sul futuro supporto occidentale a Kyiv, mai come ora si ha la sensazione di essere davanti a un momento decisivo per il prosieguo del conflitto. Per fare ordine nel caos mediatico dell’ultimo periodo e rispondere ad alcune delle domande del momento, ISPI ha realizzato un Fact-checking: è vero che la Russia sta avanzando? Il ritorno di Trump ha già influito sul flusso di aiuti verso l’Ucraina? I negoziati per la pace sono già iniziati? 

1. La situazione sul campo: la Russia guadagna terreno? SÌ 

Dopo il sostanziale fallimento della controffensiva ucraina dell’estate 2023, nel 2024 il Cremlino ha ripreso l’iniziativa militare, conquistando circa 3200 km² di territorio ucraino, soprattutto nella seconda metà dell’anno. Seppur pari solamente allo 0,54% della superficie totale dell’Ucraina, gli avanzamenti russi nell’anno passato sono stati effettivamente superiori rispetto al 2023, quando le numerose oscillazioni del fronte si erano tradotte di fatto in uno stallo. La progressione russa, seppur lenta, è continuata anche nel gennaio 2025, con Mosca che attualmente controlla circa il 18% del territorio dell’Ucraina (Crimea inclusa). Tuttavia, bisogna prendere in considerazione altri fattori oltre all’entità dei guadagni territoriali. 

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In primo luogo, è verosimile che gli avanzamenti abbiano richiesto costi umani altissimi tra i soldati russi. In secondo luogo, Mosca non controlla in maniera uniforme le regioni ucraine contese: se occupa la quasi totalità dell’oblast’ di Luhansk (99%), lo stesso non si può dire, ad esempio, per l’oblast’ di Donetsk (66%) o Kharkiv (3%). Inoltre, va ricordato che anche gli ucraini hanno insediato la propria presenza nel territorio della Federazione Russa, quando ad agosto hanno lanciato un’incursione a sorpresa nell’oblast’ di Kursk, dove poi, altrettanto a sorpresa, a fianco dei russi sono stati dispiegati battaglioni di soldati nordcoreani. Dopo che le forze di Kyiv erano riuscite a stabilire il proprio controllo su quasi 770 km² di territorio, oggi la loro presenza sarebbe limitata a un’area di circa 384 km² (1,42% della regione di Kursk). Per quanto esigui, gli avanzamenti ucraini sul campo russo non devono essere sottovalutati, poiché potranno servire da “moneta di scambio” in fase negoziale – nonostante Mosca abbia ad ora escluso qualsiasi scambio che includa l’oblast’ di Kursk.  

2. L’elezione di Trump ha già influito sugli aiuti economici e umanitari USA all’Ucraina? SÌ, MA… 

Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha già influenzato il flusso di aiuti americani alla volta di Kyiv, anche se per ora gli aiuti militari sembrano essere al sicuro. Già in campagna elettorale, Trump si era pronunciato in maniera critica sull’invio di aiuti a Paesi esteri. Non a caso, poche ore dopo l‘insediamento, il neopresidente ha firmato un ordine esecutivo che metteva immediatamente in pausa per 90 giorni tutti i programmi di assistenza allo sviluppo internazionale, allo scopo di valutarne l’efficienza e “la coerenza rispetto alla politica estera degli Stati Uniti”. La principale vittima della direttiva era stata la United States Agency for International Development (USAID), l’Agenzia governativa attraverso cui Washington dal 1961 fornisce assistenza economica e umanitaria nel mondo. Seppur la vicenda sia tuttora in evoluzione, il possibile smantellamento o rimodellamento delle linee di aiuti sotto USAID getta incertezza sul futuro supporto internazionale umanitario americano – in particolare per l’Ucraina. Nel 2023, infatti, con oltre 16 miliardi di dollari versati a sostegno di programmi umanitari e di supporto macroeconomico, Kyiv risultava come primo beneficiario di USAID. Anche qualora l’interruzione imposta dall’amministrazione Trump non dovesse essere estesa oltre il periodo prestabilito (la questione è legalmente spinosa negli Stati Uniti), svariate piattaforme e organizzazioni non governative ucraine hanno espresso forte preoccupazione, dichiarando di non essere certe di poter sopravvivere per 90 giorni in assenza dei fondi statunitensi.  

Nonostante pregiudichi una serie di attività – dalle iniziative di supporto al giornalismo indipendente a quelle a sostegno dei veterani, dalle opere di ripristino delle strutture energetiche a quelle di bonifica e sminamento – va sottolineato che la decisione di Trump non ha per ora intaccato il flusso di aiuti militari precedentemente promessi all’Ucraina, in quanto amministrati attraverso programmi e agenzie a cui l’ordine esecutivo del 20 gennaio non si applica. Inoltre, futuri stanziamenti da parte americana non devono essere esclusi a priori. Verosimilmente, tra i fattori che potranno incidere su questo processo ci saranno le dinamiche in sede negoziale – con Trump che potrebbe fare pressione sui belligeranti minacciando ora un incremento, ora una diminuzione del sostegno a Kyiv – ma anche la capacità dell’Ucraina di “ricompensare” Washington per il supporto, ad esempio attraverso la fornitura di alcune materie prime critiche (CRM) che l’Ucraina custodirebbe nel suo sottosuolo sotto forma di risorse e riserve.  

Nello specifico, Trump punta ad ottenere “l’equivalente di circa 500 miliardi di dollari in terre rare”. Il riferimento del presidente alle “rare earths elements“ (REE), tuttavia, andrebbe ridimensionato, dal momento che in Ucraina non vi sarebbero miniere di REE attualmente operative a livello commerciale. È invece probabile che Trump si riferisse, in generale, ai giacimenti di minerali e alla produzione di alcuni metalli nel paese, tra cui CRM come titanio e grafite. Alle dichiarazioni del presidente USA aveva fatto seguito il 12 febbraio l’incontro a Kyiv tra il segretario al Tesoro americano Scott Bessent e Volodymyr Zelensky, con Bessent che aveva consegnato allo staff del presidente ucraino una bozza di accordo sui minerali critici. Questa prima proposta è stata però respinta pochi giorni dopo dalla leadership ucraina, che ha lamentato come il documento fosse troppo focalizzato sugli interessi USA. Sta di fatto che eventuali future forniture di aiuti da parte statunitense – così come le stesse garanzie di sicurezza dell’Ucraina – potrebbero dipendere anche dalla stipula di un accordo dedicato sulle CRM. Quale forma e contenuti quest’ultimo possa assumere (se una richiesta di accesso privilegiato ad asset esistenti o da sviluppare in futuro), rimane poco chiaro. 

3. Gli USA hanno smesso di aiutare militarmente Kyiv? NO 

Se il futuro degli aiuti statunitensi è così centrale per Kyiv e per il delineamento di un processo di pace, gran parte del merito va al contributo dato dall’amministrazione Biden alla causa ucraina. In totale, da gennaio 2022 a dicembre 2024, l’Ucraina ha ricevuto 267 miliardi di euro (quasi €90 miliardi l’anno) in aiuti militari, finanziari e umanitari. Di questi, €113 miliardi sono stati inviati dall’Unione Europea (Paesi membri e istituzioni) e altri 19 miliardi da Stati europei non appartenenti al blocco comunitario (Regno Unito su tutti). Con €114 miliardi, gli USA hanno ad ora recapitato più aiuti di tutti i 27 stati membri UE messi insieme, anche se meno rispetto all’intera Europa geografica (incluse Norvegia, UK, Svizzera e Islanda). La rilevanza del sostegno di Washington emerge nettamente se si guarda ai singoli Paesi, con la Germania che si classifica seconda con “appena” €17 miliardi. Riassumendo, nei primi tre anni di guerra, il 43% degli aiuti sono stati consegnati a Kyiv dai soli Stati Uniti. A rendere imprescindibile Washington, però, è la dimensione militare: dei €130 miliardi in materiali e strumenti bellici consegnati finora, più di €64 miliardi provenivano dagli USA (quasi la metà degli aiuti militari totali), a fronte di €50 miliardi (39%) dai Paesi UE.  

Alla luce di questi numeri, resta difficile capire se l’Europa riuscirebbe a colmare il vuoto lasciato da un ipotetico disengagement statunitense, specialmente per quanto riguarda la componente militare. Il peso specifico degli USA non è rilevante solo per le sorti del conflitto in Ucraina. Trump e il suo entourage hanno infatti repentinamente accusato il Vecchio Continente di non aver investito (e di non stare investendo oggi) abbastanza nella propria difesa, delegando la sicurezza a Washington. Di conseguenza, il segretario generale della NATO Mark Rutte ha sottolineato che i Paesi dell’Alleanza atlantica dovranno destinare alla difesa “molto più del 3%” del loro PIL – compiendo un sostanziale balzo in avanti rispetto alla soglia attuale del 2%. Oltre alle difficoltà che potrebbero sorgere nel rendere l’industria della difesa europea meno dipendente da Stati terzi (circa il 50% delle acquisizioni dell’Europa di materiale bellico non proviene da fornitori continentali), anche qualora tutti i Paesi europei (Turchia inclusa) appartenenti alla NATO allocassero il 3% del loro PIL in spese militari, tutti insieme non raggiungerebbero l’attuale budget militare degli Stati Uniti – stimato a 754,6 miliardi di dollari (a prezzi costanti del 2015).  

A livello UE, Ursula von der Leyen ha proposto di attivare la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità appositamente per gli investimenti nella difesa. Tale misura, tuttavia, non sarà sufficiente a colmare il ritardo cumulato dell’industria europea: come evidenziato da Mario Draghi all’interno del suo rapporto, il blocco comunitario necessita di almeno €500 miliardi di investimenti nei prossimi 10 anni nel settore. Fondamentali saranno il futuro Quadro Finanziario Pluriennale (MFF) 2028-2034, nel quale il commissario UE per la difesa Andrius Kubilius spera destinare almeno €100 miliardi per la difesa, e la cooperazione con partner strategici come Regno Unito e Norvegia. Tutto resta però incerto e complicato da una difficile intesa politica.  

4. I negoziati di Pace sono già iniziati? NO 

I negoziati ufficiali non sono iniziati, ma ci troviamo in una fase intensa di “prenegoziati”. La rielezione di Trump, insieme a una sempre maggiore stanchezza delle rispettive popolazioni, infatti, ha spinto sia Ucraina che Russia a manifestare una graduale apertura all’ipotesi di negoziati. A fine novembre Zelensky aveva dichiarato di voler chiudere la “fase calda” della guerra in cambio dell’adesione immediata dell’Ucraina non occupata alla NATO, dicendo peraltro di essere pronto a incontrare Vladimir Putin (nonostante nel 2022 avesse firmato un decreto che vieterebbe negoziati diretti con Putin). Dal canto suo, a dicembre il presidente russo aveva asserito di essere disposto a negoziare con Zelensky solo previe elezioni che ne certificassero la legittimità, salvo poi ritrattare a gennaio, quando ha aperto a un colloquio con Trump.  

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Un’ulteriore accelerata è arrivata proprio a seguito dell’insediamento di Trump: in meno di un mese, infatti, il presidente americano ha dapprima tenuto una conversazione telefonica con Putin (12 febbraio) e poi organizzato un colloquio USA-Russia a Riad (18 febbraio). L’incontro nella capitale saudita è stato il primo tra esponenti russi e statunitensi dall’inizio del conflitto, con Washington e Mosca che hanno concordato di lavorare verso la normalizzazione delle loro relazioni, aprendo a un faccia a faccia tra Putin e Trump nel futuro prossimo. Come ammesso il giorno successivo dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, è possibile che l’incontro tra i due presidenti possa avvenire già entro la fine di febbraio. Ma anche in quest’ottica non è detto che la pace si raggiungerà altrettanto velocemente. L’intensificazione dell’azione diplomatica americana servirebbe teoricamente soprattutto ad avvicinare Russia e Ucraina al tavolo dei negoziati, oltre che a comprendere le condizioni che le due parti vorrebbero includere in un accordo di pace. A tal proposito, Mosca e Kyiv sembrano ancora molto lontane, con la prima che non sembra intenzionata a fare alcuna concessione alla seconda – né in termini territoriali, né in termini di una futura adesione alla NATO, né in termini di forze occidentali di peacekeeping che salvaguardino un eventuale cessate il fuoco o la pace. Toccherà a Trump fare pressione perché le due parti giungano a un compromesso, anche se a ora il presidente USA si sta rivelando più accomodante verso le ragioni della Russia.  

5. La ricostruzione dell’Ucraina è già iniziata? SÌ, MA… 

La ricostruzione dell’Ucraina è già iniziata. La comunità internazionale si è attivata con iniziative atte a ricostruire e aumentare la resilienza del Paese, soprattutto nei settori critici – con il caso forse più rappresentativo delle infrastrutture energetiche, divenute tra i bersagli prioritari degli attacchi russi. Per far fronte alle impellenti sfide della ricostruzione, Kyiv ha più volte sottolineato l’importanza degli investimenti esteri. Seppur attori come l’UE abbiano già predisposto aiuti finanziari e strumenti per tutelare e incentivare potenziali investitori, gli sforzi dovranno essere intensificati a fronte di costi sempre maggiori. 

Secondo un report pubblicato lo scorso anno dalla Banca mondiale, i danni diretti alle infrastrutture e agli edifici in Ucraina erano stimati a $152 miliardi. Le perdite totali (che considerano ad esempio l’interruzione dei servizi, l’aumento dei costi operativi e le minori entrate del governo/settore privato) erano invece valutate a $499 miliardi. La Banca mondiale aveva dunque indicato che per la ricostruzione e la ripresa dell’Ucraina secondo i principi del “Building Back Better” (“ricostruire meglio”, mirando a rendere il Paese più resiliente e moderno per facilitarne l’integrazione con l’UE e le catene globali del valore) nel periodo 2024-2033 sarebbero necessari $486 miliardi. Se le future stime saranno al rialzo a causa del prosieguo delle ostilità, anche eventuali ridefinizioni dei confini potranno influenzare i costi: dei $486 miliardi totali, circa $181,5 (37%) servirebbero alla ricostruzione degli oblast’ di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhya e Kherson, le regioni unilateralmente annesse dalla Russia a seguito di referendum illegittimi nel settembre 2022 – e che il Cremlino verosimilmente proverà a rivendicare come sue. Indipendentemente dal sorgere o meno di nuove realtà territoriali, sarà fondamentale accompagnare Kyiv nella ricostruzione, sia garantendo sostegno finanziario continuativo, sia promuovendo l’afflusso di investimenti pubblici e privati nel Paese. Una tappa importante in questo processo sarà Roma, dove il 10-11 luglio si terrà la quarta edizione della Ukraine Recovery Conference – organizzata dai governi italiano e ucraino al fine di mobilitare il supporto internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina. 



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