Via verso la quarta große Koalition nella storia della Repubblica federale. La prima fu negli anni ’60, poi due durante l’era Merkel: nel primo e nel terzo dei governi in cui fu cancelliera. Dopo il voto di domenica l’alleanza tra l’unione dei partiti democristiani – Cdu e Csu bavarese – con i socialdemocratici appare l’unica soluzione praticabile. Una volta si parlava di “intesa tra i due elefanti”, ma la SPD del cancelliere sconfitto Olaf Scholz è stata tanto punita dagli elettori che oggi ha ben poco di pachidermico. Al 16% dei consensi raccolti è al livello più basso nei suoi 162 anni di storia.
Grande coalizione, dunque. In base ai risultati usciti dalle urne, la versione “classica” della magica formula, ovvero CDU/CSU più SPD, avrebbe una maggioranza di seggi un po’ risicata ma comunque praticabile senza troppi problemi nel panorama parlamentare abbastanza prevedibile e disciplinato che è consuetudine (almeno lo è stato finora) in Germania. Va da sé che rispetto alle prime tre edizioni di grande coalizione i rapporti di forza tra moderati e sinistra sarebbero molto più sbilanciati verso i primi. Se si aggiungessero i Verdi, le posizioni di forza sulle questioni economiche e sociali sarebbero più equilibrate e i numeri sulla carta molto più sicuri, ma molto più complicate sarebbero le trattative sul programma per arrivarci: una parte della CDU e tutta la CSU con i Grüne non vogliono, al momento, aver nulla a che fare.
AfD cresce, ma non abbastanza
Questa è la situazione. Lo spostamento a destra del baricentro politico della Germania è considerevole, ma in nessun modo giustifica la soddisfazione (apparente) con cui Donald Trump ha salutato “il grande giorno” in cui “sembra che il partito conservatore abbia vinto le grandi e attesissime elezioni”. Gli attuali padri padroni di Washington in realtà avevano nella mente e nel cuore tutt’altro scenario. Il “partito conservatore” che avrebbero voluto al potere non era la CDU di Friedrich Merz, ma Alternative für Deutschland, la compagine per la quale Elon Musk era sceso pesantemente in campo reclamando la necessità che fosse associata al governo come l’unica forza in grado di “salvare la Germania”. In realtà, come si è visto, AfD ha raddoppiato i suoi voti fino al 20,8%, ha consolidato la sua supremazia nei Länder dell’est, ha fatto tremare e indignato la buona coscienza civile dell’Europa e dell’occidente, ma resta al di là della Brandemauer, il cordone sanitario dei partiti che praticano la democrazia e i princìpi costituzionali.
Nonostante la sciocca campagna subito inscenata da tutti i partiti di destra estrema d’Europa, compresi i Fratelli italiani, e d’America secondo la quale sarebbe “antidemocratico” lasciare fuori dal governo il partito che è arrivato secondo per numero di voti (ma quando mai?), questo è proprio quello che succederà ad Alice Weidel, Tino Chrupalla e ai loro camerati. I quali non possono nemmeno consolarsi con uno scenario che in qualche modo li avrebbe tenuti dentro l’orizzonte del potere possibile. Quello per il quale avrebbero potuto lucrare in voti sistemandosi come unico partito dell’opposizione nel Bundestag, preparando l’agguato della rivincita alle prossime elezioni federali. Come ha fatto, per intenderci, il partito di Giorgia Meloni durante il governo Draghi.
L’altra opposizione, la Linke
Non sarà così giacché AfD non sarà l’unica opposizione alla prevedibile nuova große Koalition. A parte i Verdi, se resteranno fuori, ci sarà nel nuovo Bundestag un’altra consistente opposizione, di sinistra, questa: la Linke, la sinistra a sinistra della SPD che tra lo stupore di commentatori e sondaggisti e la gioia dei suoi militanti ha raddoppiato i suoi voti per raggiungere l’8,7%.
Il successo della Linke è, a guardar bene i risultati, la vera novità marcata dalle elezioni di domenica. L’avanzata dell’AfD era (purtroppo) un disastro annunciato ma, per quanto fonte di grandi preoccupazioni per l’immagine del paese e materia di doverose riflessioni autocritiche di tutti i partiti dell’arco democratico, il loro 20,8% non ha il carattere di una valanga che travolge il sistema come speravano le molte altre destre estreme europee e gli attuali detentori del potere a Washington. Anche il rovinoso calo dei socialdemocratici era atteso, pur se è stato forse peggiore delle più nere previsioni. I liberali della FDP sono giustamente scomparsi dal parlamento, pagando il prezzo del loro estremismo ultraliberista e sull’altra forza politica che è rimasta fuori per un soffio, al 4,97%, l’unione dei rossobruni di Sahra Wagenknecht (che rifiuta l’epiteto ma se lo merita tutto) torneremo tra un po’.
Un tale successo per gli eredi di una tradizione politica che è stata accompagnata sempre da un’ombra di sospetto per le sue radici nel vecchio regime della Germania est e che fino alla vigilia immediata del voto i maghi dei sondaggi davano sicuramente al di sotto del 5% merita tutte le considerazioni e le analisi cui gli osservatori politici si stanno dedicando in Germania fin da domenica sera.
Saper parlare ai giovani
Quali sono le ragioni dell’exploit? Intanto l’aver saputo parlare ai giovani. Dalle analisi dei flussi elettorali risulta che per la Linke ha votato un elettore su quattro nell’età compresa tra i 19 e i 28 anni. In questa fascia il partito è stato il più votato in tutta la Germania occidentale e il secondo, dietro ad AfD, nei Länder orientali. I consensi poi vanno scemando con il crescere dell’età: il 15% tra i 25 e i 34 anni, l’8% tra i 35 e i 44 e via a calare fino al 4% tra gli ultrasettantenni. Clamorosa smentita del pregiudizio secondo il quale la Linke sarebbe un partito di “nostalgici” incanutiti. Se si prende in esame il fattore genere, risulta poi che la Linke è votata più dalle donne che dagli uomini, in linea con una tendenza generale per cui le donne tendono a votare per i partiti progressisti molto più degli uomini.
Macché nostalgia, il programma politico
Ma perché un partito così piace ai giovani? L’analisi dei fattori che hanno sostenuto la scelta di chi l’ha votato mostra un altro dato interessante. Il fattore principale è stato il programma politico (79%), molto più che per tutti gli altri partiti, mentre relativamente poco hanno contato i candidati (13%) e quasi nulla (9%) il fattore identitario, a ulteriore smentita della natura “nostalgica” di questa sinistra.
Se si va sul merito del programma si vede poi che la questione che ha inciso di più è stata l’apertura nei confronti degli immigrati e quindi il rifiuto netto delle politiche discriminatorie e restrittive contenute non solo nel programma dell’estrema destra – la famigerata Remigration predicata da Weidel & co. – ma anche nelle misure proposte dalla CDU per la limitazione del diritto di asilo e gli ostacoli ai ricongiungimenti, nonché ai cedimenti gravi ai criteri dello stato di diritto che in materia di accoglimento e integrazione sono venuti anche dalla SPD e dal governo Scholz, non ultimo l’”interesse” mostrato nei confronti delle “soluzioni” extracomunitarie per i migranti esclusi dall’asilo, tipo l’Albania meloniana.
La questione dell’immigrazione
È del tutto verosimile poi che proprio questo approccio civile e democratico nei confronti dell’immigrazione abbia portato alla Linke i consensi che ha evidentemente sottratto alla sua naturale concorrente a sinistra, l’Unione di Sahra Wagenknecht, la quale invece ha accompagnato il suo programma economico e sociale di sinistra con un radicale rifiuto all’accoglimento e all’integrazione degli stranieri, mettendosi in gara demagogica con le “soluzioni” della destra estrema.
L’analisi secondo la quale la personalità dei candidati della Linke avrebbe pesato relativamente poco nelle scelte dei suoi elettori appare un po’ in contrasto con quanto è apparso agli osservatori della campagna elettorale, nella quale un ruolo molto impegnato e vivace hanno avuto i due coordinatori federali del partito, il professore universitario di biologia ex dirigente di Greenpeace Jan van Aken e soprattutto la deputata Heidi Reichinnek, i cui comizi hanno entusiasmato i sostenitori e domenica sera è comparsa raggiante in televisione esibendo sul braccio un tatuaggio di Rosa Luxemburg. Con tanto spirito giovanile contrasta un po’ che nella campagna elettorale la Linke abbia coinvolto alcune vecchie figure subito etichettate come Silberlocke (vecchi incanutiti) da una base per natura impertinente, come Gregor Gysi, Dietmar Bartsch o Bodo Ramelow. Di loro s’è parlato in passato, di van Aken e Reichinnek si parlerà.
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