A Roma via alla Cop sulla biodiversità: l’Italia ospita il summit con gli scheletri nell’armadio su aree protette e aiuti al Sud del mondo

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Roma ospita la seconda sessione della Conferenza delle Parti sulla Biodiversità, la Cop16 Bis delle Nazioni Unite, che si tiene presso la sede Fao dal 25 al 27 febbraio. Ma lo fa con diversi scheletri nell’armadio. Neppure troppo nascosti. Dai ritardi nei finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo a quelli nell’applicazione della Strategia europea per la biodiversità 2030. Tant’è che l’Italia è tra i Paesi che non hanno finora favorito l’accordo sulle risorse economiche che i Paesi del Nord globale avevano promesso di destinare al Sud del mondo per contrastare la perdita di biodiversità. Lì dove più si pagano le conseguenze della distruzione degli habitat e dello sfruttamento delle risorse naturali. La prima sessione della Cop 16 si è svolta a ottobre 2024 a Cali, in Colombia, ma è stata sospesa il 2 novembre. A pochi mesi di distanza, restano immutati gli obiettivi da raggiungere a Roma: un flusso di denaro dai Paesi ricchi per arrivare al target di 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025, finanziamenti accessibili direttamente ai popoli indigeni e alle comunità locali e lo stop o, almeno, la riforma entro quest’anno di sussidi e agevolazioni dannose per la biodiversità.

Gli obiettivi fissati a Montreal – La Cop16 ha lo scopo di rafforzare il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, il Quadro Globale per la Biodiversità scaturito della storica Cop15 di Montreal del 2022. Si tratta di un’agenda globale dell’Onu che definisce 23 target per fermare e invertire la perdita di natura entro il 2030. Durante i negoziati di Montreal, i Paesi partecipanti avevano concordato una tabella di marcia ben precisa: la protezione di almeno il 30% degli ecosistemi marini e terrestri entro il 2030. Oggi solo circa il 15% della superficie terrestre risulta protetto. Tra il 2015 e il 2020, la Fao stima un tasso di deforestazione di circa dieci milioni di ettari l’anno, con l’agricoltura intensiva tra le principali cause della perdita di biodiversità e il 33% del suolo terrestre utilizzato per coltivazioni o pascoli. Circa il 75% dell’ambiente terrestre risulta significativamente alterato dalle attività umane. Per quanto riguarda la superficie marina, risulta protetto l’8,4% degli oceani, anche se appena il 2,7% è sottoposto a rigide misure di conservazione, con una percentuale che si riduce allo 0,9% per le aree d’alto mare al di fuori della giurisdizione nazionale. Al ritmo attuale al 30% si arriverà solo nel 2100. La Lista Rossa della Iucn (l’Unione internazionale per la conservazione della natura), poi, conta oltre 150mila specie minacciate, oltre 42mila delle quali a rischio estinzione. Tra gli altri obiettivi fissati a Montreal, anche un flusso di risorse economiche dai Paesi sviluppati a quelli meno sviluppati di 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e di 30 miliardi all’anno entro il 2030, oltre a una riduzione dei sussidi ai settori dannosi per la biodiversità di almeno 500 miliardi di dollari entro il 2030. Anche perché oltre il 50% del Pil globale è direttamente collegato ad attività dipendenti dalla biodiversità.

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In Colombia nessun accordo sui finanziamenti (anche per colpa dell’Italia) – Al vertice di Cali sono stati raggiunti anche alcuni risultati positivi. Tra questi, la creazione di un nuovo organismo dedicato ai popoli indigeni, la definizione di un metodo standard per identificare le aree oceaniche di alto valore ecologico e un accordo sui contributi finanziari che le aziende utilizzatrici di informazioni genetiche derivanti dalla biodiversità (come quelle dei settori farmaceutico, cosmetico e biotecnologico) dovranno destinare alla conservazione della natura. Ma non si è raggiunto nessun accordo per la mobilitazione delle risorse economiche definite durante la Cop15 di Montreal. “C’è un importante gap da colmare e l’Italia è tra i principali responsabili del ritardo nel versamento della propria quota in favore dei Paesi in via di sviluppo” spiega Martina Borghi, campaigner Foreste di Greenpeace Italia, secondo cui “è importante ridurre e riallocare a favore di un’effettiva ed efficace protezione della natura i sussidi elargiti ai settori ambientalmente dannosi, cui anche il nostro Paese contribuisce in misura significativa”. Da un rapporto pubblicato a giugno 2024 da Odi (Overseas development institute), infatti, è emerso che su 28 Paesi analizzati, 23 hanno versato meno della metà della loro quota promessa ai Paesi in via di sviluppo per arginare la perdita di biodiversità, con 8,4 miliardi di dollari e un deficit di 11,6 miliardi di dollari. Tra i principali responsabili del ritardo ci sono Giappone, Regno Unito, Italia, Canada e Spagna, che mancano all’appello con 8,3 miliardi. Soltanto Norvegia e Svezia hanno rispettato il loro impegno.

Il ruolo di aziende e banche e l’appello delle ong – E d’altronde, come denunciato da Greenpeace nel report “Eu Bankrolling ecosystem destruction”, tra il 2016 e l’inizio del 2023, diverse istituzioni finanziarie con sede in Italia hanno contribuito con dieci miliardi di euro in credito e oltre 2,5 miliardi di euro in investimenti a importanti società in settori come quelli lattiero-caseario, della mangimistica, dei biocarburanti e del packaging, che mettono a rischio gli ecosistemi del pianeta. Uno studio che quantifica l’impatto della deforestazione legata ai consumi delle economie più sviluppate, pubblicato sulla rivista scientifica Nature nel 2024, evidenzia come tra il 2001 e il 2015 circa l’80% della perdita di biodiversità associata ai consumi italiani sia avvenuta al di fuori dei confini nazionali: tra i 24 Paesi considerati, l’Italia si posiziona al settimo posto a livello globale e al quarto a livello europeo per perdita di biodiversità “importata”. Sono una quarantina le ong o reti di organizzazioni della società civile che hanno aderito all’appello del Wwf Italia per chiedere al Governo italiano di adoperarsi e facilitare un accordo sulla mobilitazione delle risorse finanziarie, garantendo un maggiore impegno finanziario dell’Italia per la biodiversità nei fondi multilaterali dedicati.

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Un patrimonio unico (ma non abbastanza protetto) – L’Italia è il Paese europeo con la maggiore varietà di specie, habitat e il più alto numero di specie endemiche. Nella Penisola, infatti, si trovano più della metà delle specie vegetali e il 30% di quelle animali di interesse conservazionistico a livello europeo. “Ma il 68% degli ecosistemi terrestri italiani è a rischio e il 30% delle specie è minacciato di estinzione”, denuncia Greenpeace. Le aree protette coprono il 17% della superficie terrestre e l’11% di quella marina, ma di quest’ultima solo l’1% ha reali misure di tutela. Molti siti, infatti, sono protetti soltanto su carta. Legambiente ha recentemente denunciato i gravi ritardi dell’Italia nell’applicare la Strategia europea per la biodiversità 2030 (Seb) e incisive politiche di tutela della natura. “A sei anni dal countdown Seb 2030″, sottolinea l’associazione, “non è cresciuta di un solo ettaro la superficie protetta terrestre o marina, non sono aumentate le aree a protezione integrale, né migliorano le azioni per contrastare le specie aliene o il degrado del territorio”. Preoccupa, poi lo stallo relativo alle settanta nuove aree protette marine e terrestri che sono ancora in attesa di completare l’iter; ma anche il mancato avvio, da parte dell’Italia, del registro volontario dei crediti di carbonio nel settore agricolo e forestale. “Quest’ultima situazione non solo comporta ingenti perdite finanziarie per settori vitali per il nostro Paese, ma genera anche un clima di incertezza che può creare terreno fertile per l’infiltrazione della criminalità organizzata e delle ecomafie, come denunciato dalla Procura nazionale antimafia in una recente audizione alla Camera dei deputati”, denuncia Legambiente.



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