Innovazione sociale è navigare controvento

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L’innovazione sociale di cui parliamo (l’innovazione sociale trasformativa) ha cominciato ad essere riconosciuta e discussa circa 20 anni fa in molte regioni del mondo. L’osservazione era che malgrado l’individualismo e il consumismo dominati, gruppi di persone sceglievano di affrontare temi diversi della quotidianità collaborando, rigenerando sistemi di prossimità, avendo cura uno dell’altro e dell’ambiente.

Nei decenni successivi questi casi inizialmente isolati hanno prodotto una costellazione di esperienze frutto di una diffusa progettualità sociale, e in alcuni casi anche istituzionale e imprenditoriale, messe in campo da cittadini, associazioni, policy makers, amministratori e professionisti del progetto.  Ciò che questa storia ci insegna può essere discusso su due piani: cosa queste innovazioni hanno generato in termini di idee e di pratiche sociali, e come si sono collocate nel contesto più generale. 

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L’innovazione sociale e il suo contesto.

La discussione sul primo piano ci porta a raccontare una storia di successo: molte delle idee e delle pratiche iniziate due decenni fa si sono articolate e diffuse. Hanno generato competenze e strumenti progettuali e gestionali. Hanno alimentato la conversazione sociale con idee e progetti che, a loro volta, hanno dato luogo a programmi e politiche di più larga scala: dai circoli di mutuo aiuto, al welfare ci comunità; dalle social street, alla città dei 15 minuti e della prossimità; da alcune biblioteche e scuole che operano anche come nodi di reti sociali, ad una nuova idea di servizi pubblici collaborativi. 

Viceversa, la discussione sul secondo piano, quello del rapporto tra innovazione sociale e contesto più generale ci racconta una storia ben più complessa e contraddittoria per quello che riguarda il loro impatto locale e a più ampia scala: l’innovazione sociale di successo in un quartiere è un agente della sua gentrificazione? I patti di collaborazione con i cittadini, riducono il ruolo del Pubblico? Perché l’innovazione sociale tende a mobilitare i ceti medi più che i veramente poveri? Di questi temi si è discusso molto, in modo anche molto severo. A mio parere, alcune osservazioni critiche sono più che fondate ed occorre tenerne conto. Di tutto ciò si è già scritto molto (per quello che mi riguarda, nel libro con Michele d’Alena, Fare assieme: verso una nuova generazione di servizi pubblici collaborativi, Egea 2024). Per cui non è di questo che qui vorrei parlare. Il tema che invece vorrei provare a mettere a fuoco è questo: come si colloca l’innovazione sociale trasformativa, con le potenzialità e i limiti di cui ci siamo occupati negli ultimi anni, nel nuovo e per molti versi drammaticamente diverso contesto in cui ora ci troviamo?

Che tempo che fa: meteorologia politica e innovazione sociale.

Di problemi ambientali, politici e sociali ce n’erano già molti 20 anni fa. Non c’è dubbio però che, da allora, hanno raggiunto un’evidenza e una tangibilità senza precedenti. Ciò ha portato alla diffusione di stati di ansia, incertezza e paura. E, come reazione, al diffondersi di posizioni negazioniste, rispetto ai temi ambientali, e di comunità chiuse e identitarie, rispetto ai quelli sociali.

Ne risulta che l’innovazione sociale di cui ci siamo occupati, con le sue idee e le sue pratiche di collaborazione, prossimità e cura, e con le comunità aperte e progettuali che tende a costruire, si trova oggi scontrarsi con modi di fare di pensare che richiamano alla guerra, all’odio, alla costruzione di muri (materiali e metaforici) di difesa dall’altro e del diverso. E quindi alla costruzione delle comunità chiuse e identitarie di cui si diceva. 

Ci troviamo dunque in difficoltà: certamente in questi 20 anni l’innovazione sociale ha dato un grande contributo nella comprensione di cosa significhi contrastare nel quotidiano il neoliberismo individualista e mercantilista che ha dominato questo periodo. Ma certamente non è stata in grado di incidere in grande sulle dinamiche dominati. Ma non c’è solo questo: oggi la meteorologia politica, sociale e culturale ci dice che sta arrivano in grande ciclone. O, forse, che ne siamo già nel mezzo. 

L’ipotesi di lavoro che qui vorrei avanzare è che, malgrado questo, anzi proprio per questa novità del contesto, l’innovazione sociale abbia molto da insegnarci. In particolare, credo che, ora più che mai, le idee e le pratiche di collaborazione, prossimità e cura che essa ci propone, indichino la strada da seguire, sia in termini di risultati da raggiungere che modi per farlo.

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La domanda quindi è: nel mezzo del ciclone Trump+Musk, cosa possiamo fare? Come possiamo utilizzare ciò che l’innovazione sociale ci ha insegnato? 

Usando una metafora nautica, potremmo dire che dobbiamo andare di bolina. Cioè, zigzagare controvento senza perdere l’orientamento. 

In fondo è questo modo di procedere è quello che, consapevolmente o no, chi si è occupato di innovazione sociale ha sempre fatto: le innovazioni sociali nascono dove possono e per questo non sono mai nella direzione completamente giusta. Ma in quello che producono c’è una componente che rappresenta uno spostamento che giudichiamo favorevole: delle idee, dei modi di fare, dei cambiamenti nel modo di funzionare di certe istituzioni che ci sembrano, a livello locale, una rottura sistemica rispetto ai modelli dominati. Dato un obiettivo, si procede dunque come un bricoleur, adattando quello che si trova. O, tornando alla metafora nautica, la rotta non si fa puntando direttamente ad essa, ma utilizzando il vanto e zizzagando verso la meta.

Oggi però, per continuare in questo modo nelle attuali condizioni atmosferiche, servono barche più solide e marinai veramente esperti, capaci di mantenere la rotta e manovrare le vele in condizioni del mare così avverse. 

Il che, fuori di metafora, significa: riconoscere e consolidare le idee e le pratiche di collaborazione, prossimità e cura come caratteri da perseguire in ogni iniziativa. Valorizzare le risorse che via via possono emergere, facendo passi, parziali e imperfetti, ma tali da portare ad avanzare nella direzione voluta. Costruire un sapere progettuale più profondo e diffuso, ed avere l’immaginazione e il coraggio politico di metterlo in atto. 

Un futuro post-umano e post-terrestre: una (distopica) prospettiva.

L’oggi però, a mio parere, non è caratterizzato solo da un vento contrario più forte, ma anche dal fatto che sono in campo altre potenti proposte: proposte che, a chi scrive, appaiono come distopiche e, in prospettiva, catastrofiche, me che, ahimè, a molti sembrano attraenti. Continuando nella metafora nautica, non solo il vento è più forte, ma anche sono in competizione diverse possibili terre verso cui andare. Il che rende più difficile mantenere la rotta.

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Facciamo un passo indietro e torniamo a 20 anni fa. Quando l’innovazione di cui fin qui ci siamo occupati è emersa, il vento contrario era quello del neoliberismo classico (stile Margaret Thatcher). Esso diceva che non c’erano società, ma solo individui, e prometteva a tutti un benessere basato sull’accumulo di prodotti e servizi e sul denaro necessario per acquistarli. L’idea di benessere era semplice: diventare tutti consumatori e clienti. Ed essere felici di esserlo. 

Come tutti sanno questa proposta ha avuto molto successo. E questo anche se non dava una visione del futuro. Anzi: in essa non c’era proprio un futuro da raggiungere. C’era solo da estendere a tutti un presente di consumi. 

Poi però essa si è scontrata contro la durezza della realtà e delle multiple crisi che l’hanno attraversata. Crisi economiche, catastrofi ambientali, guerre, con in aggiunta la pandemia, hanno fatto emergere con molta chiarezza che, per la stragrande maggioranza delle persone, questa strada non poteva portare alla felicità promessa.  E questo per la molto concreta ragione che la Terra, l’unica Terra che abbiamo, non era abbastanza grande. Per cui la festa dei consumi che era stata promessa per tutti, era invece destinata ad essere una festa per pochi. Tutto questo ha amplificato il senso di insicurezza e creato le condizioni per la diffusione di stati di ansia e paura che sono state il terreno di coltura per la crescita dei modi di essere e di fare che oggi vediamo dilagare nel mondo: il negazionismo, in relazione ai problemi ambientali, e la creazione di comunità chiuse e incattivite, rispetto a quelli sociali. E’ il neoliberismo ibrido, stile Trump+Musk, i cui ingredienti sono: individualismo da far west, integralismo religioso e futuri post-umani e post-terrestri. 

E’ utile soffermarsi brevemente su questo punto: si è detto che il neoliberismo non prometteva un futuro diverso, ma solo l’estensione a tutti delle sue promesse di consumo e di libertà civili. Il neoliberismo ibrido che sta emergendo da un lato nega le libertà civili e, dall’altro, propone una visione forte sul futuro: una nuova frontiera di viaggi spaziali, connessioni neuronali e intelligenze artificiali capaci di cambiare il mondo. E noi umani con lui. 

Tutto questo ricorda le origini del fascismo quando, in Italia, si mescolarono idee e interessi reazionari, con le idee e l’energia del movimento futurista. Con questo non intendo dire che la storia si ripete. Voglio solo rilevare che ci sono già stati momenti in cui delle idee diverse si sono incontrate, e delle menti creative hanno dato una patina di futuro a ciò che al fondo era solo bieca conservazione del potere da parte di chi già lo aveva.  

Oggi, il fatto che le diverse componenti del neoliberismo ibrido non siano coerenti tra loro, e la constatazione che lo scenario che propongono sia impraticabile, non sembrano ostacolarne il successo: nell’epoca delle fake news e delle bolle comunicative, coerenza e fattibilità di ciò che si propone non appaiono come questioni rilevanti. Per le stesse ragioni, sembra irrilevante anche che ciò che viene proposto sia, di fatto, lo scenario del “si salvi chi può”. Dove il “chi può” sono in tutta evidenza, i molto ricchi. 

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Essere terrestri, cioè capaci di collaborare, in prossimità, con cura.

Oggi, non solo ci troviamo a dover andare controvento, ma si è anche acceso nuovo faro che, con la potenza comunicativa di cui dispone, orienta molti in un’altra direzione. Anzi, poiché ciò che indica porta verso un sicuro naufragio, più che di un faro dovremmo parlare di un canto di sirene dotato, come nella storia di Ulisse, di una grande capacità attrattiva. Verso la catastrofe, appunto.

Si ricorderà che Ulisse, per non cadere nella trappola, mise della cera negli orecchi dell’equipaggio. Noi non possiamo fare qualcosa di analogo. Cioè, non possiamo impedire a tutti di sentire queste sirene. Quello che però possiamo fare, è rendere più forte e chiaro il nostro messaggio. 

La prima mossa dovrebbe essere quella di rendere evidente che non si può essere tutti great again. Che, nell’esasperata competizione che ci propongono, per avere dei vincenti e occorre ci sia un gran numero di perdenti. Per cui, quello che ci promettono è un futuro luminoso, ma solo per chi se lo può permettere.

A questo proposito, va notato e sottolineato che, in occidente, per la prima volta dalla rivoluzione francese in poi, la proposta di benessere per tutti lascia il passo a quella di un benessere per pochi: un benessere che è dichiaratamente solo per alcuni vincitori. Mentre per tutti gli altri il destino è di essere degli scarti: sottoprodotti inutili del successo dei primi. 

In parallelo con questo, si tratta di dare più visibilità e più forza allo scenario alternativo che negli anni abbiamo collaborato a costruire e che ora, nel nuovo contesto, dobbiamo riuscire a rinforzare. Ciò significa renderlo più convincente, mostrando come esso sia l’unico che può permettere di affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Problemi che nel quadro delle promesse del neoliberismo del secolo scorso sono intrattabili (cioè non possono trovare risposta) e richiedono di cambiare l’impalcatura di concetti con cui sono affrontati. 

Trump e Musk, insieme, hanno una proposta che, a suo modo, è forte perché implica un cambiamento di paradigma: in essa si elimina l’universalismo. Cioè la necessità che la soluzione proposta possa valere, almeno in principio, per tutti. Trump e Musk dichiarano, in modo esplicito, che la loro soluzione vale solo è per chi vincerà (cioè per loro). Certo, si obietterà che, nei fatti, era così anche prima. Ma, idealmente, non lo era: in tempi precedenti, in occidente, una proposta, per essere accettabile, doveva essere presentata come una soluzione che, in principio almeno, potesse valere per tutti. Trump e Musk hanno rotto questo tabù: si dichiara che, su questo Pianeta, il benessere non può essere per tutti. Chi vince vince. Gli altri, i perdenti, come si è detto, sono scarti inutili, da buttare, da mettere dove non intralcino (come, in modo emblematico, si è proposto di fare con i palestinesi di Gaza).

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In opposizione a tutto questo, di fronte ai problemi intrattabili del neoliberismo classico, l’innovazione sociale ci ha detto che i problemi si possono affrontare scegliendo di collaborare, in prossimità e con cura. Il cambiamento paradigmatico alla base di questa proposta è dunque quello che porta a riconoscere nella collaborazione, nella vicinanza e nella cura, gli ingredienti grazie ai quali può essere costruito un mondo in cui ci si salva tutti assieme. 

Questa visione, e le pratiche che ne derivano, vanno dunque meglio capite e rilanciate: contro il “si salvi chi può” di Trump+Musk, occorre affermare il “nessuno si slava da solo” di Papa Francesco: tutti ci salviamo se stiamo assieme tra noi umani e con tutto ciò che costituisce la rete dalla vita. Contro il “Colonizziamo Marte”, occorre ribadire il “Torniamo alla Terra” di Bruno Latour. Che non vuole dire diventiamo tutti contadini ma significa affermare con forza che l’umano è terrestre. Che è umano solo in quanto e parte della rete della vita su questo pianeta. Cioè, appunto, se è sulla Terra.

Fare una politica terrestre: spazi contendibili e risorse utilizzabili.

Certo, mettere in pratica quello che si è detto fin qui è difficile. Ma l’innovazione sociale ci dice che non è impossibile: nella complessità del mondo, anche quando le condizioni metereologiche sono così avverse, si può trovare una rotta di salvezza, per tutti.

Si tratta dunque di sviluppare dei progetti e delle politiche che siano, al tempo stesso, radicali e relazionali.  Radicali, perché non fanno compromessi con le idee, le pratiche e lo strabordante potere del nuovo neoliberismo. Relazionali, perché implicano di mettersi in gioco, di entrare in relazione con gli altri. E di farlo con un atteggiamento positivo e aperto al confronto, scommettendo sul fatto che collaborazione, prossimità e cura sono delle modalità relazionali presenti nella nostra natura umana. E che quindi possono emergere anche su terreni difficili e tra persone per molti versi lontane. Affinché ciò succeda occorre proporre occasioni e strumenti che le stimolino e supportino. Occorre aprire dei campi di possibilità: degli “spazi contendibili” dove intenzioni e interessi diversi si confrontino. Dove le proposte del “si slavi chi può” si possano confrontare e scontrare con quelle del “salviamoci assieme”. Spazi politici in cui le conversazioni e le pratiche della collaborazione e della cura, possono avere la possibilità di esprimersi. 

Ne viene che, anche a fronte della tempesta in corso, non si devono costruire dei bunker in cui, in attesa di tempi migliori, proteggere le buone idee che oggi sono sotto attacco. Significa invece che dobbiamo metterci in mare aperto e rendere più visibili e attrattive le nostre idee. 

Tornando alla metafora nautica da cui ero partito, significa valorizzare le correnti favorevoli, anche se non sono perfettamente allineate ai nostri obiettivi, e trovare il modo per sfruttare la forza del vento anche per andare nella direzione opposta alla sua. In definitiva, tutto questo significa far politica: politica dei policy maker, ma anche e soprattutto, politica del quotidiano, fatta da tutti gli altri: una trasformazione dell’esistente che emerge dall’integrazione di molte attività progettuali a diversa scala e su diversi terreni, ma dotate di componenti orientate nello stesso verso. Quello di una società ecologica e giusta. Quello in cui re-impariamo ad essere terrestri.

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Foto di Josue Isai Ramos Figueroa su Unsplash



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