lo swing sudamericano a rischio desaparecidos

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Silencio, por favor. Silêncio, por favor. Un accento circonflesso che muta impercettibilmente la grafia, ma che non sposta una virgola sull’appello del giudice di sedia di turno, sortendo sul pubblico lo stesso effetto di una ramanzina sugli alunni discoli: totalmente inutile. Le piccole differenze idiomatiche, tra spagnolo e portoghese, si perdono e si riabbracciano sotto la cupola di una passione che riesce a essere il filo conduttore di quel macro-continente frastagliato da divergenze come il Sudamerica. Inutile negarlo, lo sport è un contenitore sociale e non va preso assolutamente sotto gamba il suo valore aggregante con la storia a insegnare come, tante volte, sia stato strumentalizzato a modi veicolo per narcotizzare il popolo. Lasciati da parte gli spettri del passato, se Joao Fonseca ha deluso le aspettative del popolo di casa, c’è la vittoria nel doppio di Marcelo Melo e Rafa Matos a far esplodere gli spettatori dell’ATP di Rio de Janeiro.

Il successo dei brasiliani nel torneo di casa è un unicum, il primo tandem interamente carioca ad aggiudicarsi il titolo è volto a restituirci, di rimando, fotografie che al di la di ogni retorica non si vedono spesso in altri contesti tennistici, contesti non sudamericani. Non ce ne voglia Rafa Matos, ma vedere la reazione di Marcelo Melo al match point ha fatto un certo effetto. 41 anni, ex numero uno al mondo nel doppio, 38 vittorie di cui un Roland Garros e un Wimbledon che si inginocchia a terra, e con le mani giunte sulla nuca scoppia in lacrime, è un tripudio di gioia che ci riconnette con un senso di appartenenza, a uno spirito collettivo che nel tennis tante volte si adombra dietro la sagoma dell’ego.

La cornice emozionale, dicevamo, l’ha messa il pubblico: ogni punto dei verdeoro rompeva il muro dei decibel in uno scenario da corrida, con l’arena intitolata a Guga Kuerten che strizzava l’occhio al più proverbiale dei Maracanà. Il concetto di tifo è qualcosa con un’aura trascendentale, di sacro. Il Maracaná, La Bombonera, El Monumental sono solo alcuni esempi di “cattedrali” sparsi per il Sudamerica, termine ecumenico spesso ripreso dai sociologi per spiegare quanto il rituale calcistico sia paragonabile a una liturgia, dove i giocatori sono i celebranti e i tifosi vestano il ruolo di proseliti. Se a questa concezione si aggiunge il collante del nazionalismo, ripulito dalle sue falle estreme, ecco che l’identificazione con gli sportivi fa da base per la dicotomia del “noi contro loro”.

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Come accennato, il tennis ha storicamente preso leggermente le distanze da questo atteggiamento, come sottolineato da atleti come Sebastian Korda e Carolina Garcia, additando il “tifo da stadio” come qualcosa da relegare al calcio e che mal si sposa con il cerimoniale della loro disciplina. Alcuni passi sono stati fatti in tal senso, come il mancato obbligo al silenzio nelle esibizioni del circuito UTS, ma in attesa di capire se questo stravolgimento possa attecchire nel circuito maggiore, i tornei sudamericani hanno sempre seguito delle logiche a se stanti dove l’arbitro ha sempre faticato non poco per provare a sedare il supporto incendiario per il beniamino di casa.

Un’anomalia pregna di euforia, passione e colore che rischia di essere in serio pericolo, una mosca bianca che potrebbe essere schiacciata in favore di alcune logiche che sono improntate poco e niente verso il folclore, verso il popolo. I tornei dello swing sudamericano rischiano di diventare desaparecidos, una pedina sacrificabile per dare priorità a chi del tennis ha deciso di appropriarsi mettendo mano al portafoglio. Il decimo Master 1000 in Arabia sembra cosa fatta e le tribune non gremite delle WTA Finals a Doha e delle ATP Next Gen Finals a Jeddah sono la malinconica testimonianza di quanto la lacuna passionale e la scarsa tradizione sportiva siano tollerabili pur di attingere ai fruscianti verdoni messi a disposizione dagli emiri.

La deriva araba non è l’unica minaccia per le competizioni latine, ma c’è anche il nuovo format dei Master 1000, aspramente criticato da giocatori come Stefanos Tsitsipas, che sottrae slot utili in un calendario già saturo di impegni e competizioni. Un tema su cui si era soffermato qualche tempo fa Jorge Salkeld, vice presidente di Octagon che detiene i diritti di vari tornei nella stagione, andando a spiegare come l’allungamento dei 1000 avesse creato un effetto domino sulla programmazione del tour: “L’ATP ha iniziato a promuovere cinque Master 1000 che sono stati allungati a 12-13 giorni, il che ha cambiato il calendario ed è nata la necessità di rimodulare il mese di luglio. Ci saranno diversi movimenti per gli ATP 250. Questa è la motivazione del tour: proporre un prodotto, se si può dire, più alto.

Quella dei capi del circuito maggiore è una mezza verità, perchè l’incremento dei giorni di una manifestazione non è direttamente proporzionale alla qualità proposta in campo, anzi offre il fianco ad argomentazioni in senso opposto. Al di là delle dichiarazioni di facciata, la realtà è che l’ATP di Cordoba è stato il primo ad essere sacrificato nel calendario 2025, il timore è che la lista potrebbe allungarsi. Le polemiche di alcuni giocatori non aiutano, come quella di Holger Rune nei confronti dei campi di Buenos Aires, e i numeri raccontano di una verità allarmante: delle 46 settimane a disposizione di un’annata, solo 3 sono destinate al Sud America. Un bottino magro, una sorta di confinamento che spegne il frastuono dei sentimenti, preferendogli la sensazione tattile di contare delle fredde banconote.





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