Il concetto di “fine vita” ha radici storiche e culturali profonde. Il termine “eutanasia”, dal significato letterale di “buona morte” o “morte a fin di bene”, è un termine francese del tardo Settecento.
Il termine implica una morte senza dolore, accompagnata da una transizione spirituale “in stato di grazia”.
Tuttavia, dal punto di vista giurisprudenziale, non esiste una definizione normativa chiara, poiché il termine non è codificato in alcun testo legislativo.
La disciplina dell’eutanasia nell’ordinamento italiano
In Italia, la pratica dell’eutanasia è vietata dalla legge. Il quadro normativo è delineato da diverse disposizioni legislative, tra cui:
- Articolo 5 del Codice Civile;
- Articoli 579 e 580 del Codice Penale (omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio);
- Articolo 50 del Codice Penale;
- Legge 219 del 2017 (consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento).
Casi per inquadrare la tematica per malattie mentali
A livello internazionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) consente agli Stati una certa discrezionalità nella regolamentazione dell’eutanasia, purché vengano garantiti i principi fondamentali della Convenzione Europea.
Uno dei casi più discussi è il “Mortier vs Belgio”, in cui Tom Mortier denunciò la decisione delle autorità belghe di autorizzare l’eutanasia della madre, Godelieva de Trojer, affetta da depressione cronica. La procedura fu eseguita senza informare i familiari, sollevando interrogativi sul consenso informato.
Un altro caso controverso è quello di Shanti de Corte, una giovane belga di 23 anni affetta da disturbo post-traumatico da stress e depressione cronica, che ottenne l’autorizzazione all’eutanasia sostenendo l’insostenibilità della sua sofferenza psicologica.
Considerazioni psicologiche
Questi casi risultano emblematici perché sollevano un quesito cruciale: come mai è stata ritenuta valida la richiesta di morte da parte di una persona affetta da un disturbo mentale probabilmente così grave da comprometterne la capacità di esprimere un consenso libero e consapevole su un trattamento medico?
La riflessione si concentra sul rischio di interpretare una simile richiesta come semplice indicatore della gravità della malattia, anziché come una scelta autentica e libera di un individuo in grado di autodeterminarsi.
Alla luce di ciò, emergono domande fondamentali:
- la stanchezza di vivere o una depressione profonda, che spingono a desiderare la morte, possono sempre essere trattate in modo efficace con terapie farmacologiche e psicoterapeutiche?
- Tali condizioni possono essere considerate motivazioni sufficienti per giustificare il suicidio?
La prospettiva prevalente ritiene che la sofferenza psicologica, per quanto intensa, non costituisca una ragione sufficiente per legittimare il suicidio in assenza di una patologia corporea irreversibile e incurabile.
Tuttavia, il caso Mortier, analizzato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mette in evidenza un approccio differente.
La Corte ha riconosciuto la dignità del disagio psicologico, affermando che il diritto di vivere secondo le proprie inclinazioni personali può includere scelte che risultino dannose o pericolose per l’individuo stesso, sia fisicamente sia moralmente.
Ciò evidenzia una sfida complessa, che coinvolge aspetti morali, psicologici e giuridici: fino a che punto lo Stato può ricorrere ai suoi poteri coercitivi e al diritto penale per proteggere le persone dalle conseguenze delle loro stesse scelte di vita?
Conclusioni
In conclusione, secondo la normativa attuale, il medico ha la libertà di facilitare, basandosi sul principio di autodeterminazione dell’individuo, l’intenzione di suicidio autonomamente e liberamente espressa da una persona mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile che provoca sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili e che sia pienamente in grado di prendere decisioni libere e consapevoli.
Tuttavia, l’Associazione dei Medici Cattolici Italiani (AMCI), alla luce di tale aggiornamento del codice di deontologia medica, ribadisce che il codice deontologico stabilisce chiaramente che la pratica medica è invariabilmente orientata a favore della vita, senza eccezioni.
Si sottolinea, inoltre, l’importanza di accompagnare la vita con sensibilità, determinazione e dedizione.
Anche nelle situazioni di estrema fragilità, comprese quelle terminali, il medico è chiamato a garantire la massima sollecitudine e proporzionalità nell’assistenza, anche quando la guarigione non è più possibile.
Dott.ssa Annamaria Greco
Dott.ssa Cristina Colantuono
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