Ci sono stati anni (penso ai Sessanta e ai Settanta), in cui l’architettura aveva un posto d’onore nel dibattito politico. L’idea insieme del progetto complessivo della città, quella di una edilizia che rispondesse a una domanda sociale diffusa, una attenzione alla qualità e insieme una bella tradizione (italiana ed europea) di architetti capaci di dare una lettura del moderno che avesse un suo carattere e componesse una sua estetica.
Quando a progettare erano Rossi, Aymonino, Gregotti…
Il lavoro di progettazione (siano le case popolari o gli edifici con funzione pubblica, università, uffici statali o amministrativi, teatri, musei) portava allora nomi come quello di Aldo Rossi, di Carlo Aymonino, di Giorgio Grassi, di Mario Fiorentino, di Vittorio Gregotti o Ignazio Gardella, solo per citarne alcuni, e ha coinvolto anche molti protagonisti dell’architettura internazionale.
Poi, l’eclisse dell’idea stessa di una progettazione complessiva, lo scemare del peso dell’intervento pubblico nel settore delle abitazioni e persino in quello degli edifici pubblici (oggi sempre più “rimediati” o casuali) hanno prodotto la perdita di peso dell’architettura e dell’urbanistica dal dibattito pubblico, almeno da quello italiano, perché in Europa (ad esempio in Germania dove la riunificazione ha aperto la questione del ripensamento funzionale di una città come Berlino o di alcune grandi strutture nel resto del paese, dalle Fiere ai musei, qualcosa ha continuato a muoversi.
Per tutti questi motivi colpisce che la questione dell’architettura sia rispuntata fuori in termini politici e che a sollevarla sia oggi la destra.
Lo stile ufficiale di Trump: il neoclassico
E’ di questi giorni una decisione di Trump che indica uno “stile ufficiale” per gli edifici federali (è la prima volta che succede negli Usa): a lui piace il neoclassico, in contrapposizione all’affermarsi a partire dall’epoca Kennedy-Johnson di quello che conosciamo come una sorta di funzionalismo modern style e che qualcuno preferisce definire come “brutalismo”. Il brutalismo non ha nulla a che vedere con brutale, il termine viene da una definizione di Le Corbousier del béton brut, ovvero del cemento grezzo usato non solo per gli elementi strutturali di un edificio ma anche per la sua immagine estetica.
E in questi giorni è esplosa la polemica di Alternative fur Deutschland contro l’architettura moderna e in particolare contro l’eredità della Bauhaus di Walter Gropius in nome di un “classicismo del bello” che sembra guardare non tanto alla tradizione del sette-ottocento tedesco quanto alle manie di grandezza monumentale di Albert Speer.
Invece di Bauhaus, ecco Albert Speer, l’architetto di Hitler
Stiamo parlando di quello che era considerato l’architetto di Hitler (è che era anche il ministro degli armamenti del Terzo Reich) autore di un progetto di trasformazione di Berlino, di cui doveva scomparire persino il nome, per essere sostituita da una nuova città chiamata Germania in cui tutto doveva apparire come colossale e monumentale (una dei principi dell’architettura di Speer risiedeva nell’idea che i suoi edifici dovessero trasformarsi in “rovine” desinate a durare per millenni, quasi delle piramidi, e in cui non c’era spazio per le abitazioni dei comuni cittadini).
Cosa accomuna questi due attacchi? Il brutalismo (tornato in auge anche grazie al bel film di Brady Corbet The brutalist in cui Adrian Brody interpreta un architetto ebreo scampato alla Shoha) è insopportabile per Trump perché “estraneo” alla tradizione americana, perché viene da fuori (in particolare dall’Europa). Era stato lo stesso regista del film a dire di aver scelto il brutalismo come metafora di «qualcosa che le persone non comprendono e quindi vogliono abbattere ed eradicare”.
Architettura al servizio del popolo, o del capo?
La tradizione del Bauhaus è invisa ad AfD per gli stessi motivi per i quali era insopportabile a Hitler che la considerava una forma di arte degenerata e una forma di espressione al servizio del popolo e non del “capo”, senza nessuna concessione al monumentale.
Il nuovo capo dell’FBI che chiama l’edificio brutalista della sua agenzia “il ministero della paura” ha annunciato l’intenzione di abbatterlo e sostituirlo magari con qualche colonna dorica in stile Capitol Hill. Questa strana destra che ha sostituito i vecchi slogan “legge e ordine” con quelli modernizzati in “arbitrio e disordine”, non sopporta quello che è diverso, quello che ha al centro le persone e i loro bisogni sociali. E lo fa partendo dall’architettura.
Forse è ora che la sinistra riprenda in mano la questione dell’architettura non meramente per dare una risposta “estetica” alle nuove frenesie della destra populista e para-fascista, ma perché dentro questa disciplina ci sono tutti gli elementi che tengono insieme una prospettiva progettuale di lungo respiro del vivere collettivamente in un luogo chiamato città, che risponda a bisogni sociali e che abbia una idea moderna, progressista e aperta di bello.
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