Sono solo 32 le REMS in Italia con lunghe liste d’attesa e pericoli per la sicurezza. Il Governo vuole realizzare 300 nuovi posti
Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza: sono 32 in Italia, con oltre 600 persone fuori in attesa di essere internate.
Riunioni tra tecnici dei Ministeri della Salute e Giustizia; tra i nodi le competenze per la vigilanza e i costi.
“Mi dai la pallina antistress”?
Cappuccio in testa, passo incerto. Jonathan (nome di fantasia, come quasi tutti) entra nella stanza del medico.
Sbiascica di una “curva che vuole disegnare”.
E riceve un cuore di gomma da stringere insieme ad un foglio su cui tratteggia una parabola e una sagoma.
Nello stesso momento, Marco sta rasando i capelli ad Arturo; Andrea è davanti al televisore protetto da vetro infrangibile e grate (“dopo cinque apparecchi distrutti”, spiegano gli operatori); Ahmed e Jamal sono impegnati a pulire biliardino e cabina fumatori; Andrea cammina avanti e indietro, con le mani nei guanti e la musica negli auricolari.
Tutt’intorno c’è un sottofondo di porte che si aprono e chiudono, di ciabatte che strusciano, di odori che si mescolano: il cous-cous della mensa, lo sgrassatore delle pulizie, l’aria di qualche camera troppo a lungo con le finestre serrate, sbuffi di fumo da stanze con le porte aperte dalle 7 alle 23.30.
“Posso dire una cosa?”, ci rincorre Aurelio, fiero del suo nome (vero).
“Fu un grande imperatore dai grandi pensieri. Io sono vivo grazie a questi medici, perché durante il Covid ci hanno protetto; a casa sarei morto”.
Un po’ ospedale, un po’ carcere, ma poi né l’uno né l’altro
Un po’ ospedale, un po’ carcere, ma poi né l’uno né l’altro. Benvenuti in una delle 32 Rems d’Italia, le residenze per l’esecuzione delle misure di sorveglianza, approdo di malati affetti da schizofrenia, disturbo bipolare dell’umore o deliranti; persone giudicate incapaci di intendere e volere nel momento in cui hanno commesso reati (anche molto gravi).
Benvenuti in residenze che sempre più spesso – con i loro 630 posti letto – diventano la destinazione anche di delinquenti comuni considerati anti-sociali per via di cervelli segnati dall’abuso di droghe.
“Chiamo i primi pazienti, i secondi utenti: l’alto numero di questi ultimi rende più difficile prenderci cura di coloro su cui davvero possiamo fare qualcosa”, sintetizza Alessia D’Andrea, psichiatra forense, direttrice di una delle due strutture di Subiaco, insieme a Corrado Villella.
Un’ora ad est della capitale, tra le colline del parco dell’Aniene e i monti Simbruini.
Qui operano due delle cinque Rems del Lazio (4 maschili, una femminile): due moduli da venti posti ciascuno, gemelli ma destinati a non incontrarsi, come Castore e Polluce, i fratelli della mitologia a cui sono intitolati i reparti destinati ai “folli rei” dentro l’ospedale.
Meno residenti col bisogno di medicina generale, più malati con patologie psichiatriche.
Le REMS sono in prevalenza in piccole comunità
È in prevalenza in piccole comunità che operano queste residenze che nessuno vuole sotto casa. Strutture ibride, che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, “superati dopo un faticoso percorso” nel 2014, ha ricordato la Corte costituzionale.
Residenze con metal detector all’ingresso, recinzione lungo il perimetro e camici bianchi dentro per accogliere il ragazzo che ha ucciso la madre “perché le voci gli ripetevano che era posseduta dal demonio”; il quarantenne che perseguitava una donna; l’uomo che aveva provato a strangolare l’infermiera; quello con la tendenza ad incendiare o il cittadino del Ghana finito qui dopo essere stato “in origine fermato senza biglietto del treno: mandato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale – riepilogano gli operatori – ricoverato nel servizio di diagnosi e cura; infine arrivato qui, coi suoi traumi e una perizia di cui abbiamo chiesto la rivalutazione”.
E col bollino della malattia mentale, si finisce in un circuito da cui può essere difficile uscire.
Come nell’inesorabile discesa dei sette piani del racconto di Dino Buzzati.
Il 4o% di pazienti, stimano esperti, non si riesce a dimettere.
Nella sala comune, Michelangelo si avvicina per raccontare di “essere dentro per un pezzo di pizza. L’avevo pure pagata”. Racconto frutto di immaginazione?
“Non del tutto – spiegano i medici. Era entrato in rosticceria con uno scontrino qualsiasi e pretendeva un supplì”.
Resta dentro anche chi potrebbe andare fuori
Poi, c’era tutto il resto indicato nella cartella clinica, in base alla quale ogni mattina riceve, come gli altri, la terapia prima di cominciare – attraverso percorsi psicologici, attività varie, sport e uscite controllate – il lento cammino verso un altrove.
Fuori da queste stanze come di un ospedale qualsiasi, con le finestre sugli ulivi, ma letti bloccati al pavimento e specchi incassati per ridurre ogni pericolo.
L’altrove è il momento in cui sarà possibile andare in comunità.
E poi a casa, “per chi ha una casa e una famiglia, non di rado prima vittima di violenze”, spiegano i medici.
Così resta dentro anche chi potrebbe andare fuori, come l’ottantenne (anche lui straniero, come la maggior parte secondo l’ultimo rapporto di Antigone sulle Rems), entrato nel circuito “dopo aver lanciato una sprite addosso ad un carabiniere; passato dal carcere all’incapacità di intendere e volere. Con la sospensione del processo, la conferma della pericolosità sociale e la misura di sicurezza disposta dal giudice”.
O resta dentro, dopo trent’anni tra celle, case lavoro e Rems, quell’uomo che gambizzava le vittime: “Nessuna comunità lo vuole, per il rischio di ripetere il reato”.
Il suo diventa una sorta di ergastolo bianco, come si chiamava la condizione degli internati a cui la misura di sorveglianza poteva essere prorogata più volte in nome della pericolosità sociale, finché la legge del 2014 ha stabilito il limite del massimo della pena.
Non vale la libertà vigilata
Ma questo non vale per la libertà vigilata.
Michelangelo, Jonathan, Marco: storie di una marginalità sociale per cui spesso si spalancano i cancelli delle carceri o delle strutture che il codice penale continua a chiamare “manicomi giudiziari” (art. 222 cp).
Uomini (e poche donne) che i servizi sanitari non riescono ad intercettare prima dei reati e che talvolta non accolgono poi.
Capita così che Giovanni, ad esempio, da quattro mesi pronto a passare in una comunità accreditata, sia ancora nella Rems di Subiaco.
E il suo posto non passa ad uno dei 664 in lista d’attesa a fine 2024, di cui 26 in carcere impropriamente. Il resto “liberi in attesa”.
Persone che restano, cioè, fuori da strutture protette, talora con prescrizioni del magistrato di sorveglianza, quasi sempre con gravi rischi per la collettività.
Barbara Capovani, la psichiatra uccisa a Pisa; Marta Di Nardo a Milano; Renzo Cristofori a Caprarola (Viterbo); Matteo Demenego e Pierluigi Rotta a Trieste sono alcune delle vittime di persone inferme di mente, in attesa di ricovero o non seguite sul territorio.
“Almeno 14 morti nei dieci anni dalla norma”, stima un esperto.
Ecco “l’intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”, stigmatizzato dalla Consulta nella sentenza 22/2022.
Nei “gravi problemi di funzionamento” del sistema che “non tutela in modo efficace – scrivono i giudici- né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni; né il diritto alla salute del malato”.
Da qui il monito al legislatore perché proceda – “senza indugio” – ad una riforma di sistema, che coinvolga non più solo il Dicastero della Salute ma pure della Giustizia.
Dopo tre anni – e nessuna novità – la Corte potrebbe indirettamente tornare sul tema il 9 giugno, sollecitata da quattro ordinanze dei giudici di pace di Roma secondo i quali per le misure di sicurezza dei Cpr occorre una riserva assoluta di legge come per le Rems.
Ministero della Giustizia e della Salute stanno lavorando su un incremento di circa 300 posti per le REMS
I tecnici del Ministero della Giustizia e della Salute stanno lavorando su un incremento di circa 300 posti per le Rems in poli tra Nord, Centro e Sud con l’ipotesi di un triage iniziale.
Mercoledì l’ultima riunione non ha sciolto il nodo delle competenze della vigilanza.
Si valuta un gruppo interforze, nella prospettiva futura di un contingente della Polizia Penitenziaria, che già si occupa degli spostamenti degli internati, previo adeguato aumento di organico.
Questo non comporterebbe in automatico più costi, considerando quelli dell’attuale vigilanza privata. A Subiaco, guardie giurate sorvegliano il ragazzo che cammina lungo il perimetro del campo di calcio, altre i pazienti che fumano sulla veranda dipinta con vasi da cui fioriscono parole o monitorano le telecamere.
Le aggressioni non mancano.
La sicurezza è una delle principali criticità
“La sicurezza è una delle principali criticità”, conferma Villella, che punta su una “maggiore rete tra carcere, Rems e strutture territoriali anche per snellire le liste d’attesa”.
Del bisogno di “percorsi forensi dedicati, con strutture ad alta sicurezza per le situazioni più difficili e dipartimenti di salute mentale rafforzati” parla Giuseppe Nicolò, direttore dell’Asl Roma 5, per “personalizzare di più le cure”.
Decisivo, come sempre, l’impatto economico, considerando che – ad esempio – in Lazio ogni paziente costa circa 400 euro al giorno e per nuove strutture servono altri medici, infermieri, tecnici riabilitativi.
Come sempre, è una questione di scelte politiche.
Nel frattempo, l’Umbria sta aprendo la prima Rems; il Molise è ancora senza e altre Regioni hanno solo un paio di posti. In attesa di un censimento ufficiale, il Consiglio superiore della magistratura propone l’istituzione di un osservatorio di monitoraggio dei dati tra le conclusioni della delibera approvata dal plenum.
Mentre non mancano voci di avvocati che nel dibattito in corso paventano una regressione rispetto ai cardini della “rivoluzione gentile” che segnò la fine degli Opg.
Dove “ogni piano era un mondo sé”, direbbe Buzzati.
E il protagonista non riesce ad uscire. Come troppi pazienti ancora oggi.
Fonte: Il Sole 24 Ore
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