Lula ha trasformato il Brasile in un petrostato

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Gli ambientalisti brasiliani sono in rivolta: il paese è entrato nell’Opec+, mira a estrarre sempre più petrolio (già oggi è il settimo produttore mondiale) e punta ai pozzi petroliferi nel delicato estuario amazzonico. Inoltre è lacerato tra la responsabilità di organizzare la delicatissima Cop30 a novembre e la tentazione di sfruttare le sue immense riserve fossili

Dopo Emirati Arabi e Azerbaigian, la comunità della diplomazia climatica sembrava pronta a tirare un sospiro di sollievo almeno sul paese al quale vengono affidate le conferenze Onu sui cambiamenti climatici.

Formalmente, la Cop30 non viene organizzata da un petrostato, visto che l’appuntamento è a Belém, in Brasile, nella foresta amazzonica. E se invece non fosse così? E se invece il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva fosse un petrostato travestito da campione del clima?

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L’allarme arriva dalla società civile brasiliana e dall’Observatório do Clima, la più grande rete di organizzazioni ambientaliste del paese. È una sveglia dalle illusioni: la preoccupazione internazionale sulla Cop30 sembra essere sugli alloggi di Belém, città del tutto impreparata a ospitare un evento da 50mila delegati.

Lula ha visitato Belém la settimana scorsa e ha addirittura detto che qualcuno potrà dover dormire all’aperto, aggiungendo che sarà «indimenticabile». Gli ambientalisti brasiliani invece stanno provando a raccontare una verità diversa: per lo status del Brasile come faro climatico del mondo non ci sono solo problemi logistici e organizzativi, ma anche sostanziali e politici. E forse dovremmo occuparci di quelli. 

Settimo produttore

Basta guardare ai numeri per dare credito a queste preoccupazioni: nel 2024 il petrolio ha superato la soia come principale prodotto da esportazione del Brasile, che l’anno scorso ha venduto 4,3 milioni di barili di greggio.

È una dote che ne ha fatto il settimo produttore globale, poco meno degli Emirati e molto più dell’Azerbaigian, le ultime due guide del negoziato climatico. Il petrolio oggi è il 13,3 per cento delle esportazioni brasiliane. Nei prossimi mesi Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis), cioè l’organismo regolatore delle questioni ambientali, valuterà  l’approvazione di nuove licenze di estrazione, alcune anche a margine dell’Amazzonia, la cui protezione è il vanto del nuovo presidente.

Sono tutti segnali del fatto che il Brasile vede sé stesso sempre più come un grande produttore mondiale di idrocarburi: da qui la decisione ratificata dal governo questa settimana di entrare nell’Opec+, il club allargato dei produttori di greggio.

Come ha detto Suely Araujio, portavoce di Observatório do Clima, «questo ingresso in un organismo dell’Opec è un altro segno dei passi indietro di questo governo. Stiamo continuando a scegliere soluzioni del passato invece di affrontare le enormi sfide del presente e del futuro».

Nel mondo Lula gode ancora di tutta la credibilità del post-Bolsonaro. soprattutto grazie ai numeri incoraggianti della lotta contro la deforestazione e alla proposta presentata al G20, guidato nel 2024, di tassare i patrimoni degli ultra miliardari. Nel suo paese, però, la luna di miele con la società civile ambientalista è finita da un pezzo.

Blocco 59

La decisione di entrare nell’Opec+ a nove mesi dall’inizio della COP30 è la spia più chiara delle contraddizioni che agitano il Brasile, e della lacerazione tra l’ambizione politica di guidare la lotta ai cambiamenti climatici e la tentazione di sfruttare le immense riserve energetiche fossili, che potrebbero fare del paese sudamericano il quarto produttore mondiale nel corso di questo decennio.

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Il progetto estrattivo simbolo di questa lacerazione è il controverso Blocco 59, un pozzo di petrolio che si trova all’ingresso dell’estuario del rio delle Amazzoni, al largo della costa dello stato di Amapá. A giugno ci sarà un’asta per altri 332 lotti petroliferi, di questi 47 sono nella zona dell’estuario amazzonico. 

Lula è apertamente a favore del progetto e al quotidiano O Globo ha dichiarato: «Vogliamo quel petrolio, perché il petrolio esisterà ancora a lungo, e abbiamo bisogno di usarlo per poterci finanziare la transizione energetica, che avrà bisogno di molti soldi».

Ne è passato di tempo dall’accoglienza da rockstar alla Cop27 in Egitto nel 2022, quando era ancora solo il presidente eletto e non era ancora entrato in carica, e da quando, alla Cop28 negli Emirati, l’anno successivo, diceva: «Dobbiamo affrontare il problema che la decarbonizzazione globale è troppo lenta e lavorare verso un’economia meno dipendente dai combustibili fossili».

Verso la Cop30

La dipendenza del Brasile dal petrolio non ha fatto che aumentare, e l’ingresso in Opec+ mostra come nella visione di Lula il fossile sia ancora una risorsa strategica.

La domanda, a questo punto, è che storia politica potrà raccontare alla Cop30, che simbolicamente si svolgerà nel decennale della firma dell’accordo di Parigi e che sembra essere l’ultimo bivio possibile a disposizione del multilateralismo Onu per dimostrarsi come la strada per contrastare la crisi climatica, anche nell’èra Trump.

Il Brasile era sembrato a lungo un faro nella desolazione, con un picco di credibilità nel disastro di novembre 2024 alla Cop29 di Baku, quando la ministra dell’ambiente Marina Silva aveva preso in mano il negoziato, aveva criticato duramente l’Azerbaigian e nelle ultime ore dell’ultima notte aveva detto che il Brasile avrebbe fatto le cose in modo diverso, promettendo che quella amazzonica sarebbe stata «la Cop delle Cop». Invece rischia di essere proprio una Cop come tutte le ultime, dipinta di verde e alimentata dal petrolio.

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