Ritorno nelle scuole libanesi trasformate in rifugi durante i bombardamenti israeliani

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“La scuola doveva cominciare la prima settimana di ottobre” dice Aya Abirafeh, studentessa di 16 anni in una piccola stanza dell’istituto che la ospita, a picco sul panorama offerto dalla montagna sull’entroterra libanese. “Quando poi è iniziata eravamo già in ritardo di un mese”.

Ad Aley, cittadina a maggioranza drusa a 20 chilometri a Est di Beirut, sulle alture di Mount Lebanon, la sua scuola superiore è una di quelle che hanno ospitato le persone, circa un milione, in fuga dai bombardamenti israeliani che dalla fine del settembre 2024 hanno colpito diverse zone del Libano. Scuola che ancora non è tornata ad accogliere gli studenti.

I banchi sono stati sostituiti da materassini, tappeti e coperte. Separè di legno compensato dividevano le classi a metà per garantire una sorta di privacy a famiglie diverse, anche numerose, in spazi ristretti.

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In mancanza di rifugi antiaerei, le scuole libanesi sono diventate rifugi per gli sfollati dal Sud, dalla periferia meridionale di Beirut e dalle altre zone più colpite del Paese. Ciò ha inevitabilmente posticipato l’inizio dell’anno scolastico per migliaia di studenti, poi cominciato online o sulla base di turni.

“Qui facciamo lunedì, martedì e mercoledì. Dalle 8 alle 14.30” racconta Abirafeh, riferendosi alla scuola che ancora oggi, anche dopo il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele e il ritorno di gran parte degli sfollati verso le zone di provenienza, ospita il suo istituto. Da inizio novembre il suo plesso si è spostato, insieme ad altri tre, all’interno di una singola scuola appena fuori città.

Dopo essere diventati alloggi per più di due mesi, adesso molte delle scuole necessitano di importanti lavori di manutenzione. “Basti pensare ai bagni: non sono fatti per essere utilizzati costantemente da centinaia di persone. Non ci sono docce, ma sono stati utilizzati anche per quello, il che ha portato all’intasamento degli scarichi”, spiega Hanan al-Lama, preside della scuola pubblica Khalid Jumblatt.

Nel corridoio della scuola-rifugio Maroun Aboud di Aley, Libano © Agnese Stracquadanio

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Nel corridoio della scuola-rifugio Maroun Aboud di Aley, Libano © Agnese Stracquadanio

“Abbiamo accolto circa 10.200 persone in tutto il distretto di Aley. Alcuni hanno affittato un’abitazione, mentre altri hanno trovato rifugio nelle scuole. Servivano circa quattro camion di acqua al giorno” spiega Reabal Abou Zeki, coordinatore delle “cellule di emergenza”, gruppi di pronto intervento formati da volontari del Partito socialista progressista (Psp) di Aley che hanno gestito questa e altre crisi.

“Dopo aver sistemato gli sfollati, è venuto il momento di pensare agli studenti” dice Sanaa Shahyeb, preside della scuola Maroun Aboud, quella di Abirafeh, prima di una visita della scuola ospitante. “Cercavamo un posto per continuare le lezioni: questa scuola ha accolto e ancora ospita i nostri studenti” spiega.

Sul telefono di Bahaa Jurdi c’è un gruppo WhatsApp con 69 membri. È il gruppo della scuola Maroun Aboud che lui ha gestito da coordinatore per 67 giorni, accompagnato dai tre figli che aiutavano il papà, o la mamma, Sally Jurdi, coordinatrice di un’altra scuola-rifugio, nella stessa città.

“Il cessate il fuoco è arrivato a sorpresa, tutti hanno festeggiato. Alcuni hanno iniziato a fare subito i bagagli, mentre altri hanno aspettato un paio di giorni per accertarsi di essere al sicuro”, spiega Sally Jurdi, capo della divisione marketing di un’azienda americana e coordinatrice del gruppo scout del Psp. La scuola Khalid Jumblatt che ha gestito durante la guerra ha ospitato tra le 500 e le 600 persone in totale, fino a 250 nello stesso momento.

“Il momento più emozionante è stato quando lasciavano la scuola: tutti piangevano. Molti bambini hanno portato con sé un giocattolo, come un souvenir”, continua Jurdi, seduta a lato della stufa a legna che riscalda una delle stanze della sede del Psp di Aley.

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I coordinatori, come anche i volontari, sottolineano quanto in 67 giorni abbiano costruito relazioni. “Una donna ha partorito mentre era nella nostra scuola, due giorni prima dell’annuncio del cessate il fuoco”, aggiunge Bahaa Jurdi. Lo hanno chiamato Jabal -“montagna”- proprio come dove è nato, nei territori montuosi abitati dalla comunità drusa.

Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele che ha messo fine a più di un anno di scontri iniziati con il fronte di supporto ai palestinesi aperto da Hezbollah, e all’escalation israeliana su ampie zone del Libano, il governo libanese ha denunciato continue violazioni del cessate il fuoco da parte di Israele. Più di 800, secondo il ministro degli Esteri, solo tra il 27 novembre e il 22 dicembre 2024.

Nonostante la presenza di un meccanismo di monitoraggio dell’accordo, presieduto dagli Stati Uniti, con la Francia, la missione delle Nazioni Unite Unifil e gli eserciti libanese e israeliano, quest’ultimo ha continuato a portare avanti operazioni militari fatte di detonazioni e demolizioni nei villaggi in prossimità del confine, giustificando le azioni come parte dell’implementazione dell’accordo al fine di eliminare il rischio di nuovi attacchi da parte del gruppo armato e partito politico libanese.

Il 26 gennaio di quest’anno era la data prevista per la scadenza dei termini del cessate il fuoco entrato in vigore il 27 novembre. Entro 60 giorni l’accordo prevedeva il ritiro di Hezbollah al di sopra del fiume Litani, il ritiro di Israele dal Sud del Libano e un parallelo maggior dispiegamento dell’esercito libanese, a fianco ai peacekeeper dell’Unifil.

Le forze israeliane sono rimaste in diverse zone del settore Est della Linea Blu che divide Libano e Israele oltre la scadenza del 26 gennaio, aprendo il fuoco sui residenti, considerati pedine di Hezbollah, che cercavano di esercitare il loro diritto di fare ritorno alle loro case o a quello che ne rimane. Secondo il ministero della Sanità libanese almeno 24 persone hanno perso la vita, più di 50 dall’inizio del cessate il fuoco, mentre la scadenza per l’implementazione dell’accordo è stata poi spostata al 18 febbraio.

Ad oggi però l’esercito israeliano non ha lasciato del tutto il Libano. Mantiene la sua presenza in cinque postazioni lungo il confine e continua a condurre operazioni militari nel territorio. “Agli studenti delle zone di confine è stata offerta la possibilità di seguire le lezioni online, o spostarsi nelle scuole più vicine” dice Rania Abu Ghaida, preside della Public high school di Hasbaya, cittadina a circa 95 chilometri a Sud di Aley e a circa 20 dal confine. “Qui ne ospitiamo diversi” continua, senza specificare il numero.

Secondo una stima di Abou Zeki ad oggi tra le 500 e le 1.000 persone sono rimaste ad Aley perché le loro case sono danneggiate o non possono tornare a casa. “C’è anche chi ha deciso di registrare ufficialmente i figli nelle scuole di Aley ed è per gli studenti un’occasione di scambio”, spiega Shahyeb.

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“Molti istituti avevano bisogno di manutenzione anche prima ma adesso è diventato urgente”, continua Shahyeb. Con uno Stato in dissesto, la gestione del post-emergenza, come dell’emergenza stessa, è lasciata alle autorità locali, spesso ai partiti e alla società civile. Proprio i partiti, radicati nella società e storicamente divisi sul territorio, sono per molti il primo riferimento.

Come spiega Abou Zeki, i costi per provvedere ai bisogni di migliaia di persone costrette ad abbandonare le loro case e per trasformare le scuole in rifugi e poi di nuovo in scuole sono elevati. “La scuola Maroun Abboud è quella che necessita della maggiore manutenzione. Mentre la Khalid Jumblatt, ristrutturata poco prima dell’inizio dell’emergenza, è adesso tornata ad accogliere gli studenti. Abbiamo rimosso i pannelli in legno che dividevano le aule e ripulito interni ed esterni”, spiega a braccia conserte seduto alla sua scrivania.

A livello politico il Parlamento libanese è riuscito solo a inizio gennaio a eleggere un nuovo capo dello Stato. Dopo più di due anni di vuoto e un panorama regionale stravolto, il capo delle forze armate, Joseph Aoun ricopre il ruolo riservato ai cristiani maroniti e ha nominato il presidente della Corte internazionale di giustizia, Nawaf Salam, come primo ministro.

La speranza è che il neonato nuovo governo libanese, formatosi l’8 febbraio, riesca a formulare un piano per la ricostruzione. “Il Partito (socialista progressista, ndr) farà la sua parte nella ristrutturazione, come anche il ministero dell’Educazione. Non ci aspettiamo altri aiuti, già limitati ad alcune organizzazioni locali durante l’emergenza”, continua Abou Zeki. Il prossimo passo sarà quello di riaprire anche la scuola Maroun Aboud, facendo pressioni sul ministro dell’Educazione per la ristrutturazione, “già richiesta da anni”.

“Ci manca la nostra scuola, ma siamo grati di poter almeno studiare, anche se solo per tre giorni a settimana”, dice Abirafeh che ricorda le tante interruzioni della sua formazione, a partire da quella causata dalla pandemia.

“Proprio quando pensavamo che questo potesse essere finalmente un anno normale, dopo il Covid-19 e la crisi economica, si è rivelato il peggiore: quello della guerra”, rincara al-Lama. “In tutto il mondo, qualsiasi cosa accada la scuola continua. Qui, ogni volta che succede qualcosa l’educazione viene sospesa e sono gli studenti a pagare il prezzo più alto” continua. Gli studenti, soprattutto chi è prossimo all’università, cercano di fare il massimo quando non sono in classe.

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“Sono la base per un Paese migliore, se non ce ne curiamo, allora non ci curiamo del futuro del Libano -conclude al-Lama-. E non vogliamo che questo succeda, anche se potrebbe essere già successo”.

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