Al Quarticciolo le periferie si raccontano

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La Casa di quartiere del Quarticciolo, periferia orientale di Roma, ospita l’assemblea delle realtà sociali operanti nelle periferie e comuni inquadrati dal governo nel «modello Caivano». Ci sono 100 persone, non solo dalle zone indicate dal decreto ma anche dai quartieri popolari di Napoli, Pisa, Torino, Venezia, Catania, Palermo, con collegamenti da tutta Italia. «Caivano non è un modello. Bisogno di sicurezza e necessità di un cambiamento radicale», dice la convocazione dell’incontro. Il timore dei partecipanti è che il fine del decreto Caivano e del dl emergenze sia «il controllo dei problemi sociali piuttosto che la loro risoluzione». Si discute alla vigilia del corteo che partirà oggi alle 17 da piazza del Quarticciolo, cui parteciperanno le delegazioni del resto d’Italia arrivate a Roma.

Il primo momento è costruito come una condivisione di esperienze della vita in periferia: ricorda i gruppi di autocoscienza femministi degli anni Settanta, all’organizzazione politica si accompagna un confronto costante sulle comuni difficoltà. Comincia Alessia di «Quarticciolo ribelle» raccontando i problemi riscontrati dagli abitanti del quartiere. A partire dall’assenza di servizi, il depotenziamento delle scuole, l’assenza di un asilo nido – la cui costruzione è cominciata e mai finita – fino al punto in cui convergono la loro richiesta e il contenuto del decreto Caivano: il bisogno di sicurezza. Spiega ciò che loro, che vivono questa necessità quotidianamente, intendono per sicurezza: presidi sanitari, interventi sul reddito e sul precariato, riapertura degli esercizi di commercio locale, reintroduzione dei mezzi di trasporto pubblici (la fermata dell’autobus del quartiere è stata soppressa poiché identificata come luogo di ritrovo dei tossicodipendenti) senza i quali sono scollegati dal resto della città, rifinanziamento delle scuole primarie e secondarie, costruzione e ristrutturazione delle case popolari. «Non ci sembra che la natura emergenziale del dl Caivano vada in questa direzione, tutt’altro», conclude.

Su questa linea interviene Giorgio del centro sociale «Anomalia» di Palermo. Racconta la sua esperienza di attivista e il rapporto della comunità con le realtà di base: «Nessuno si è mai posto il tema del significato che le esperienze di organizzazione collettiva nelle periferie hanno per i loro abitanti, se un edificio è occupato viene sgomberato perché è illegale, ma non ci si chiede da quale bisogno sia sorto, a quale assenza istituzionale tenti di sopperire, che valore abbia per la comunità». Spesso, spiega, vengono sgomberati presidi che offrono case a persone in emergenza abitativa che sono in lista per una casa popolare da anni; sgomberando gli edifici occupati illegalmente non viene meno l’emergenza abitativa, «ma su questo poi non si interviene». Continua denunciando come «gli episodi di violenza, quali la violenza di genere che va contrastata con i mezzi opportuni, vengono utilizzati come pretesto per intervenire su tutti i presidi sociali identificati come illegali, anche quando quegli stessi presidi fungono da contrasto alla violenza e alla criminalità».

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E proprio quelli che vengono da Napoli, da Caivano e da Scampia, raccontano la cappa che è stata calata sui loro quartieri e, nel caso delle Vele, i progetti di recupero nati sulla spinta delle lotte dei comitati.

Sebastiano da Marghera, zona industriale di Venezia, afferma: «Da noi la questione abitativa è totalmente succube dell’iper-turismo, il fenomeno AirBnb ha sconvolto il mercato immobiliare ma non c’è stato un livellamento volto a garantire l’accesso per i residenti ai beni di prima necessità, tra cui il diritto alla casa. In più viviamo nell’area dell’ex petrolchimico, dove la mortalità per tumori e leucemie supera del 20% il resto del Veneto, servirebbero delle politiche ambientali profonde per migliorare la qualità dell’aria e del suolo».

La seconda parte è organizzata come riflessione sul rapporto tra l’insicurezza sociale e la tipologia di soluzioni che il governo propone, Massimiliano da Milano identifica una relazione tra i processi di riqualificazione delle periferie e il «canonico fenomeno della gentrificazione. L’uso del concetto di decoro come pretesto per la cantierizzazione delle periferie, oltre ad agire un meccanismo di controllo, fa sì che nascano interessi economici, gare d’appalto. Queste comportano un’impennata nei prezzi d’acquisto e nel costo della vita che impediscono a chi viveva in quartiere prima dell’intervento di continuare a viverci». «La povertà – prosegue – è spinta sempre più verso l’esterno della città, scollegata dal centro e con sempre meno accesso ai benefici che la centralità comporta». La paura, per gli abitanti delle periferie nella capitale della finanza, è di non trovare più uno spazio una volta che i loro quartieri saranno «bonificati», che della reintrodotta sicurezza non saranno loro a beneficiare. Esperienza che il quadrante est di Roma in cui ci troviamo conosce bene.

Carla da Pisa sottolinea come l’assenza di scolarizzazione comporti l’iper-competitività nel mercato dei lavori non qualificati, dove si trovano «a lottare l’una contro l’altro per fare le pulizie, o i facchini, alimentando una guerra orizzontale che non ha tempo e forze di guardare verso l’alto. Questa situazione ci tiene costantemente occupati a pensare come pagare l’affitto e sostentarci. Il disagio psicologico e la solitudine pervadono i nostri quartieri».
L’assemblea si conclude con l’idea di contrapporre una rete strutturale di servizi welfare agli interventi emergenziali, con la concordanza di tutti i partecipanti circa la volontà di realizzare percorsi collettivi, condividendo risorse, saperi, progetti riusciti e tentativi, riconoscendo le similitudini e le differenze nel vissuto degli abitanti del margine. A cominciare dalla manifestazione di oggi. La speranza, dicono, è che le «nostre esperienze vengano ascoltate».



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