governo in pezzi sull’Ucraina e Zelensky

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L’umiliazione di Zelensky in diretta televisiva a opera di Trump e Vance è un momento che resterà nella storia e segnerà in modo indelebile il percorso del conflitto russo-ucraino. Un episodio eclatante, che si inserisce in un contesto decisamente complesso, determinato soprattutto dal cambio di strategia in politica estera della nuova amministrazione americana. Senza girarci troppo intorno, siamo in presenza di uno sconvolgimento globale, che potrebbe portare a un rimescolamento di alleanze e rapporti di forza, con conseguenze pesanti e durature. La gestione della guerra in Ucraina e l’evoluzione della situazione a Gaza, in tal senso, saranno paradigmatiche del modello di futuro che ha in mente il gruppo di potere che si è radunato intorno al neo presidente Donald Trump.

È davvero possibile che questo sia un turning point della storia, insomma. E noi europei non abbiamo ancora ben capito che ruolo vogliamo giocare. O meglio ancora, che ruolo possiamo avere, che prospettiva concreta di diventare attori influenti e non comparse marginali, soprattutto perché poi questi processi sembrano in grado di incidere profondamente sulla struttura stessa della nostra società e sulle fondamenta del modello di democrazia europeo. È evidente, però, la precondizione per discorsi di questo tipo è un minimo di unità e di volontà comuni. Per questo, le reazioni allo show andato in scena alla Casa Bianca (e ancor prima alle minacce di dazi del tycoon newyorchese) sono particolarmente interessanti. La posizione “formale” dell’Unione è quella che ha espresso dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen ed è di pieno sostegno al presidente Zelensky: “Be strong, be brave, be fearless. You are never alone”. Gli ha fatto eco Emmanuel Macron, che ha ribadito che “c’è un aggressore, c’è una vittima” e ha cercato di ricordare a Trump la necessità di tenere compatto il campo occidentale. Friedrich Merz, vincitore delle elezioni in Germania, è stato più secco: “Restiamo con l’Ucraina nei tempi buoni e in quelli bui”. Pedro Sanchez sulla stessa linea: “Ucraina, la Spagna è con te”.

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Leggermente meno diretta, ma proprio leggermente, è stata invece Giorgia Meloni: “Ogni divisione dell’Occidente ci rende tutti più deboli e favorisce chi vorrebbe vedere il declino della nostra civiltà. Non del suo potere o della sua influenza, ma dei principi che l’hanno fondata, primo fra tutti la libertà. Una divisione non converrebbe a nessuno. È necessario un immediato vertice tra Stati Uniti, Stati europei e alleati per parlare in modo franco di come intendiamo affrontare le grandi sfide di oggi, a partire dall’Ucraina, che insieme abbiamo difeso in questi anni, e di quelle che saremo chiamati ad affrontare in futuro. È la proposta che l’Italia intende fare ai suoi partner nelle prossime ore”. Ve la riportiamo integralmente, perché è una risposta molto interessante, che restituisce tre livelli di interpretazione, tutti interconnessi: c’è la parte di supercazzola (che copre omissioni importanti), c’è il tentativo di avere un ruolo attivo (capiremo se velleitario, le cose sembrano andare piuttosto velocemente) e c’è la necessità di non dispiacere l’amico Donald, chissà se per semplice deferenza o per complesse strategie future (che l’Italia si stia già preparando all’implosione dell’Europa e abbia deciso di andare per conto suo?).

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È evidente che una posizione di questo tipo non contribuisca alla credibilità della linea europea. Va però detto che, dato il contesto interno, la presidente del Consiglio non aveva poi tantissime opzioni e ha provato a tenere insieme le due esigenze: mostrare una certa discontinuità rispetto al passato nelle interlocuzioni con gli alleati europei, confermare la propria vicinanza ideologica e programmatica a Trump, senza essere costretta a operare clamorosi ed espliciti voltafaccia sull’Ucraina. Da qui l’idea di proporre una specie di Pratica di Mare riveduta e corretta, quasi come se l’Italia fosse un mediatore terzo e non una delle parti in causa, ovvero legata indissolubilmente alle scelte dell’Unione Europea.

Una strada stretta, anche perché la maggioranza di governo ha mostrato di avere “almeno” tre posizioni diverse. Teoricamente avremmo un ministro degli Esteri, che sarebbe anche il numero due del governo, come persona più titolata a parlare in queste situazioni. Il problema non è solo è che gli inviti a “moderare i toni” e gli appelli alla prudenza di Tajani sembrano non aiutare a inquadrare la questione per quello che è ed è già diventata. Il punto è che il nostro ministro degli Esteri, con il suo stanco europeismo e il suo conservatorismo ragionevole, sembra sempre più un’entità aliena nel governo, costantemente scavalcato non solo dalla presidente, ma anche dall’altro vice. Anche in questo caso, infatti, il ministro Salvini si è fatto notare abbastanza. Ha immediatamente “indossato la cravatta rossa di Trump”, in attesa magari di capire quando tirare fuori dall’armadio la maglietta di Putin, lasciando trapelare tutto il suo entusiasmo per come il presidente USA sta conducendo questa complicatissima trattativa diplomatica su una guerra che dura da tre anni: “Obiettivo PACE! Basta con questa guerra, forza Trump!

Insomma, altro che “l’Europa deve avere una voce sola”, come dice Tajani. Qui solo l’Italia sembra averne tre o quattro. Tutte abbastanza ininfluenti, peraltro. E questa non sappiamo neanche se sia una cattiva notizia.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell’area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.





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