Effettua la tua ricerca
More results...
“Quando si tratta l’argomento della pandemia domina un senso di rimozione: le persone non vogliono parlarne, preferiscono evitare l’argomento. C’è chi nega quello che è successo, come se fosse stata una montatura, ed è un insulto per chi ha perso la vita a causa del virus e per i suoi cari”. Così la giornalista e divulgatrice scientifica Roberta Villa, laureata in medicina e chirurgia, sottolinea l’importanza di avere una piena consapevolezza di quanto è accaduto cinque anni fa, con l’emergenza Covid-19.
“Oggi, nel caso in cui si verificassero tragedie simili, molti non sarebbero disposti ad accettare eventuali limitazioni a tutela della salute pubblica – riflette Villa -. Un problema di psicologia sociale, alimentato dalle strumentalizzazioni della politica, ma con un’Organizzazione Mondiale della Sanità più debole siamo tutti maggiormente esposti alle nuove pandemie che rischiano di verificarsi”.
L’abbiamo intervistata per saperne di più.
Che cosa ricorda della pandemia?
Quando è arrivata la pandemia ero teoricamente preparata perché avevo partecipato a due progetti europei finalizzati a fornire indicazioni su un evento simile che con ogni probabilità sarebbe arrivato. Avevo studiato tante cose, eppure la percezione è che l’emergenza Covid sia stata qualcosa più grande di noi. Ripensando a quello che abbiamo vissuto cinque anni fa, la prima sensazione che ricordo è un grande disorientamento. Quando mi vengono poste domande su cosa si sarebbe potuto fare, penso alle immagini dei militari che chiudevano l’area di Codogno e al fatto che quella misura sembrava qualcosa di impensabile. Credo che tutte le parti coinvolte a vario titolo nella gestione della situazione, ossia il governo, le autorità regionali e gli enti locali, nelle primissime settimane hanno cercato di fare quello che potevano. Non me la sento di puntare il dito sugli errori che a posteriori possiamo notare, perché era difficile capire fino a dove era il caso di arrivare, anche in termini di equilibrio fra le libertà personali e la necessità di rispondere a un’emergenza che metteva a rischio la vita di tutti. Gli sbagli meno perdonabili si sono verificati in seguito e possiamo facilmente rendercene conto ripercorrendo quanto avvenne. Va aggiunto che non è facile esserne consapevoli, infatti probabilmente al di fuori della Lombardia e del Veneto le persone non si rendono conto di quello che abbiamo passato in questi territori.
Le immagini e le notizie, però, lo testimoniano.
Si, ma nelle altre regioni non hanno vissuto con la stessa nostra intensità il silenzio e le strade deserte nel periodo del lockdown, le corse continue delle ambulanze. Sembrava di vivere in un film catastrofico distopico, ma non tutti lo hanno sperimentato con la stessa intensità. Da noi sostanzialmente tutti hanno avuto persone care che sono state colpite, hanno sofferto o sono decedute a causa del virus, così dominavano la paura e l’incertezza, mentre in altre zone l’impatto è stato diverso. Io mi sono trovata in prima linea come giornalista e comunicatrice: ho preso questo ruolo perché sin dall’inizio ho stretto una sorta di patto non scritto con chi mi seguiva.
Ci racconti.
Questo patto si basava sulla fiducia da parte mia sulla trasparenza e sulla volontà di aiutare le persone a capire ciò che stava accadendo senza alcun retropensiero e nessun fine politico o dettato dalla ricerca di consenso. In realtà non avevo nulla da guadagnarci: agivo come una cittadina che ha strumenti in più dovuti alla propria formazione. Mi sono messa a servizio della comunità per quel che potevo, cercando di seguire le notizie ma anche le novità dalla ricerca scientifica, che evolveva rapidamente. Il mio impegno era finalizzato a renderne accessibili i contenuti e mettere dei paletti. Sui media veniva detto di tutto e di più: bisognava delimitare il confine fra quello che sapevamo o meno, in un contesto di grande confusione e senza vendere certezze che non avevamo. In questo scenario era fondamentale cercare di dare dei punti fermi per quanto possibile. Non era facile e anch’io ho detto cose che poi si sono rivelate non vere, ma era ciò che si conosceva in quel momento. Considerando che la malattia era simile all’influenza, si pensava che il virus venisse trasmesso da persone che manifestassero i sintomi, quindi si riteneva che si potesse contenere rimanendo a casa e indossando la mascherina. Poi è diventato evidente che poteva essere diffuso anche da individui asintomatici.
Era un’informazione importante.
Sicuramente. La trasmissione da parte di persone asintomatiche rendeva la diffusione del virus incontrollabile: risultava difficile mettere in atto misure più selettive di un lockdown totale. Questo aspetto offre interessanti spunti di riflessione su quanto accaduto cinque anni fa ma anche sull’attualità e sul prossimo futuro, a cominciare dagli interrogativi che suscita il nuovo piano pandemico, perché non si può ideologizzare la pandemia. Quando è arrivata tutti non le hanno dato troppa importanza, perché avevano in mente la pandemia influenzale del 2009-2010 causata dal virus H1N1, denominata “influenza suina”, che era stata un’influenza stagionale importante ma non in grado di stravolgere l’intera umanità come ha fatto il Covid. All’inizio era stata sottovalutata, ma adesso rischiamo di partire da questioni ideologiche.
In che senso?
Non si può pensare che qualora si verificasse una nuova pandemia solamente il parlamento possa prendere le decisioni oppure che non si possano prevedere limitazioni delle libertà personali come è stato scritto nel nuovo piano pandemico. Nel momento in cui arrivassero virus più aggressivi di quelli attuali, bisogna decidere rapidamente e sacrificare qualche valore davanti all’esigenza di salvare vite umane. È curioso che le stesse parti politiche che cinque anni fa accusavano le autorità di non aver chiuso la Valle Seriana adesso ci dicano che non si possano prendere misure che limitino la libertà delle persone in caso servissero per la tutela della salute pubblica. Ci deve preoccupare alla luce di quanto sta avvenendo anche a livello di politica internazionale, che fa segnare una significativa ostilità verso l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il prossimo 28 febbraio si terrà la riunione per definire i ceppi di virus influenzali che entreranno nel vaccino antinfluenzale dell’anno prossimo e non è previsto che gli Stati Uniti vi prendano parte. È un esempio dello sconvolgimento che si sta verificando: anche i progetti di sorveglianza in corso in vari Paesi per ridurre il pericolo che accadano nuove pandemie sono a rischio a causa dell’indebolimento dell’Oms e delle agenzie statunitensi per la ricerca e il licenziamento di migliaia di investigatori epidemiologici del Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta. Invece di creare consapevolezza, rischiamo di farci trovare più impreparati davanti a una nuova possibile pandemia.
Ma saremmo pronti ad affrontare una nuova pandemia?
A livello di conoscenze mediche, rispetto all’epoca pre-Covid siamo più preparati, abbiamo piattaforme di vaccini a mRna messaggero e sappiamo come funzionano. In termini di consapevolezza delle persone, invece, ho la sensazione che sarebbe complicato: molti non sono disposti ad accettare eventuali limitazioni. È un problema di psicologia sociale e politico, alimentato dalle strumentalizzazioni della politica, ma con un’Oms più debole siamo tutti maggiormente esposti.
E com’è cambiata la sanità nell’ultimo quinquennio?
All’interno del personale sanitario c’è chi è andato in pensione e chi ha ceduto. Tante persone si sono licenziate a causa dello stress che hanno subito durante la pandemia e chi resiste lo fa con l’amarezza di essere stato chiamato eroe mentre ora viene insultato se non attaccato fisicamente nel pronto soccorso. Non c’è ricambio e i sanitari sono sempre più demotivati. Le criticità emerse sin dalle prime settimane dell’emergenza Covid, soprattutto in Lombardia, hanno fatto la differenza. Per farsi un’idea basta pensare al divario fra la regione lombarda e quella veneta: entrambe sono governate dalla destra, ma il Venero era dotato di una struttura territoriale più funzionante mentre da noi si era concentrato tutto sui grandi ospedali. Non mi sembra che si sia rimediato in modo significativo a questa difficoltà: sicuramente servono le persone, le risorse umane, perché non è possibile far fare gli straordinari al personale per cercare di ridurre le liste d’attesa, in quanto ci sono limiti fisici e psichici che dimostrano che non si può sfruttare oltre una determinata soglia.
Che cosa resta della drammatica esperienza della pandemia?
L’evidenza che durante le emergenze la scienza può dare risposte in tempi straordinariamente brevi. Inoltre, rimane il pensiero che la popolazione possa sviluppare solidarietà e sentirsi unita, ma con la stessa facilità con cui ha dato risposte positive può dimenticarsi tutto. La sensazione è che domini un senso di rimozione: non vogliamo parlarne, è un argomento che si preferisce evitare. A volte viene negato quello che è successo, come se fosse stata una montatura ed è un insulto per chi ha perso la vita e per i suoi cari.
Ma è possibile che arrivi una nuova pandemia?
È inevitabile. Nessuno scienziato pensa che non accadrà. Il punto fermo è che oggi avremmo gli strumenti per contenerla: se mettessimo in atto ciò che abbiamo imparato in termini di sorveglianza e contenimento dei rischi di contagio potremmo sostanzialmente bloccare la circolazione dei virus emergenti ed evitare che si ripetano certe tragedie. Purtroppo non avviene e lo stiamo vedendo con l’aviaria, che viene lasciata circolare negli Stati Uniti.
Com’è la situazione?
Ormai il virus dell’aviaria è largamente diffuso negli animali ed è riuscito anche ad infettare l’uomo. Al momento, ha colpito una settantina di persone: fortunatamente, i casi gravi sono pochi, nella maggior parte si tratta di forme lievi, ma se cominciasse a trasmettersi da persona a persona sarebbe un problema. Gli Stati Uniti avevano gli strumenti tecnici e scientifici per isolare questo virus ed evitare che si diffondesse in questo modo, ma non è stato fatto per ragioni politiche. E sarà sempre più complicato contenerlo con il depotenziamento del CDC di Atlanta.
Per concludere, cosa farebbe per migliorare la sanità?
Non abbiamo pochi medici: il loro numero è simile alla media europea. Il punto è l’organizzazione del servizio, che richiederebbe un approccio complessivo, soprattutto integrando gli aspetti sanitari con quelli sociali. Inoltre, bisogna valorizzare gli infermieri, che vengono sottovalutati e sottopagati: sono veramente pochi.
Che cosa intende per “integrare gli aspetti sanitari e quelli sociali”?
Intendo dire che sui territori bisogna implementare un’assistenza non solo sanitaria ma anche sociale. Giusto per citare un esempio, con l’invecchiamento della popolazione tanti anziani che restano in ospedale perché a casa non hanno nessuno che possa aiutarli. Inoltre, si deve superare l’assetto ospedalo-centrico, incentrato sull’alta specializzazione, perché abbiamo una sanità che quando c’è un problema grave riesce a essere al top, e questa caratteristica va mantenuta, mentre la criticità è la quotidianità, ossia le piccole cose. Per questo è necessario ripensare all’organizzazione, ridurre gli sprechi che dipendono in parte dalla frammentazione regionale della sanità e mettere in atto misure pratiche. I medici, per esempio, dicono che non ha senso che i pazienti facciano la coda negli ambulatori per avere il certificato di malattia se sono stati a casa dal lavoro perché hanno avuto mal di testa. In questo caso bisogna fidarsi e procedere con un’autocertificazione come avviene in altri Paesi del mondo. Qualcuno ne approfitterà, ma c’è chi lo fa comunque scaricando la responsabilità sul medico. Infine, si deve ridurre il numero degli esami inutili: secondo i dati disponibili, tra il 20 e il 30% dei test eseguiti non servono a cambiare la diagnosi o l’approccio terapeutico, sono svolti per controllo e sicurezza ma si potrebbero evitare.
Qui lo speciale video di Bergamonews per i cinque anni dallo scoppio della pandemia in Bergamasca.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link