La strada per uscire dalla violenza passa dal diritto alla casa

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Il percorso per riacquistare indipendenza e libertà può essere pieno di difficoltà per le donne che si trovano in una situazione di vulnerabilità socioeconomica. I pochi strumenti messi a disposizione dallo stato sono, secondo le operatrici, utili ma insufficienti

Sarah (nome di fantasia ndr) è madre di due bambini. Arrivata da un altro paese, ha sposato un italiano che si è rivelato un uomo estremamente violento. È andata via da quella relazione, si è ritrovata senza casa e senza lavoro. Si è rivolta a un centro anti violenza e, dopo un periodo in casa rifugio, è stata supportata dalla fondazione Pangea nel percorso per trovare un’occupazione. È stata assunta nella segreteria di un un grande albergo e dopo un po’ ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Con i soldi di un fondo messo a disposizione dalla fondazione, è riuscita a dare la caparra di un appartamento in affitto, per sé e i figli.

La sua storia racconta che dalla violenza si può uscire. Ma il percorso per riacquistare indipendenza e libertà può essere pieno di difficoltà per le donne che si trovano in una situazione di vulnerabilità socioeconomica.

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Case rifugio

A partire dal momento dell’abbandono della casa del maltrattante. Secondo l’Istat, il tasso di copertura delle case rifugio in Italia è 0,15 ogni 10mila donne, con differenze territoriali importanti.

Non tutte, peraltro, ospitano anche i figli. Dall’ultimo rilevamento della rete nazionale D.i.Re, i centri che dispongono di almeno una casa rifugio sono il 59 per cento del totale. Nonostante siano aumentati, i posti sono insufficienti: nel 2023 non è stato possibile mettere in sicurezza 673 donne.

Anche l’uscita dalla casa rifugio è un momento delicato. Nel 2022, delle 1.810 donne che hanno lasciato il percorso, il 27,1 per cento è tornata dal maltrattante. «Non per tutte potersi progettare autonoma rispetto all’ex partner è una reale possibilità. Alcune incontrano ostacoli su ostacoli. Perché più povere, ad esempio», spiega Anita Lombardi, operatrice accoglienza della Casa delle donne di Bologna.

Coloro che hanno subito violenza hanno una probabilità quattro volte superiore rispetto alle donne in generale di vivere situazioni di disagio abitativo: sfratti, traslochi, alloggi sovraffollati, magari insieme ai figli. Talvolta dormitori per senza tetto.

«Non ci sono appartamenti disponibili, soprattutto nelle grandi città, o hanno prezzi che spesso le donne non riescono a sostenere, perché magari fanno orario ridotto per occuparsi dei figli, o hanno salari bassi. Raramente riescono ad avere le garanzie per ottenere un affitto», dice Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re e presidente del Centro veneto progetti donna, secondo cui «soprattutto per le donne con figli si tratta di percorsi molto lunghi e faticosi». Una situazione che si complica per le donne migranti, in cui l’isolamento si amplifica.

Casa, lavoro, reddito

A Bologna la Casa delle donne ha da diversi anni un progetto per gestire in comodato gratuito dei micro alloggi del comune. «Le donne stanno lì in semi autonomia: continuano ad avere un rapporto con il Cav e vengono sostenute nel pagamento di bollette e manutenzioni. Hanno il tempo di aspettare l’assegnazione di una casa, o che il contratto di lavoro possa diventare indeterminato», spiega Deborah Casale, responsabile orientamento al lavoro della Casa delle donne.

A Padova il Centro veneto progetti donna ha avviato una sperimentazione di cohousing per donne che escono dalle case rifugio, sostenendole insieme al comune con una quota nel pagamento di bollette e affitto a privati che si mettono a disposizione.

La questione abitativa è centrale, e si interseca con quella del lavoro e del reddito. L’Istat dice che nel 2023 il 44,1 per cento delle donne che hanno iniziato un percorso di fuoriuscita ha dichiarato di non essere autonoma economicamente. La percentuale sale al 90 per cento per quelle in cerca di prima occupazione, all’83,3 per cento delle disoccupate e delle casalinghe. Moltissime, durante la relazione, hanno subito violenza economica.

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I pochi strumenti messi a disposizione dallo stato sono, secondo le operatrici, utili ma insufficienti. Secondo un report di ActionAid, nel periodo 2015-2022, le istituzioni hanno stanziato circa 157 milioni per promuovere il reinserimento lavorativo e l’autonomia abitativa. Circa 54 euro circa al mese per ognuna.

“Reddito di libertà”

Nel 2020 il governo ha introdotto il “Reddito di libertà”, un contributo di 500 euro per un massimo di 12 mesi per sostenere donne economicamente vulnerabili in uscita dalla violenza. La legge di Bilancio del 2024 ha previsto 10 milioni l’anno fino al 2026. I contributi per il 2024 sono rimasti fermi per oltre 10 mesi, fino allo scorso dicembre.

«Il processo è estremamente burocratizzato e i tempi dell’erogazione non rispondo al reale bisogno dei percorsi di uscita», afferma Simona Lanzoni, vicepresidente e responsabile progetti di fondazione Pangea onlus.

L’Inps, che gestisce il fondo, ha contato che dal 2021 fino a maggio 2024, sono state presentate 6.489 domande, di cui 2.772 accolte e liquidate. La maggioranza delle richiedenti ha tra i 35 e i 54 anni, il 69 per cento ha figli. Circa la metà non figura negli archivi Inps, probabilmente disoccupata. Le altre sono spesso precarie, con una retribuzione media annua di circa ottomila euro.

Secondo Lanzoni, «10 milioni sembrano tanti, ma arriva prima chi è più veloce e poi il fondo finisce. Si parla di aiutare circa 1.600 donne l’anno, un numero piccolo se si calcola che circa 25.000 fanno percorsi nei centri antiviolenza. E sarebbero molte di più, perché solo tra il 2 e il 4 per cento arriva a chiedere aiuto ai Cav».

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