«Ogni volta che squilla il telefono, penso che sia quella buona. Il cuore mi comincia a battere all’impazzata e prego che siano loro per dirci che sì, finalmente hanno trovato il bambino giusto per noi. O, meglio, quello per cui noi saremo i genitori ideali». Parla così Angelica T., 39enne della provincia emiliana. Angelica e suo marito Patrizio condividono quello che chiamano «il limbo dell’attesa» con quasi altre ottomila coppie sul territorio nazionale. Coppie che, dopo essere state dichiarate idonee, attendono di essere abbinate a un minore. «Abbiamo iniziato il percorso per diventare genitori adottivi circa sei anni fa. Molto tempo è stato investito per capire i nostri veri desideri, e altrettanto per orientarci nella complessità del mondo dell’adozione nazionale» dice Patrizio. In effetti queste adozioni – esattamente come quelle internazionali, cui abbiamo dedicato un’inchiesta la settimana scorsa – sono dettagliatamente normate. «La Legge n.184/83 stabilisce che l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o meno se i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, e ciò sia accertato dal Tribunale per i minorenni» spiega Sara Negri, avvocato specializzato in diritto civile e della famiglia. Ma non è tutto: tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni una separazione personale neppure di fatto. «E poi» prosegue Negri «l’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando, con la possibilità di deroga in caso di danno grave per il minore. Non è preclusa l’adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia superato da uno solo, e per non oltre dieci anni». Questo accade per evitare che si creino squilibri eccessivi all’interno della famiglia. Ma non di rado capita che si inizi la procedura in perfetta linea con le richieste di legge, per poi finire scartati a causa degli anni che si accumulano.
«Una volta appurato di possedere i requisiti, i coniugi possono presentare domanda al tribunale per i minorenni, specificando se hanno intenzione di adottare più fratelli. A questo punto, il tribunale per i minorenni dispone accertamenti sulla coppia» aggiunge Negri. Il fine è quello di accertare la capacità di educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare, i motivi della domanda. E qui c’è il primo problema perché, come denunciano a gran voce molteplici associazioni, i criteri non sono per niente simili. «Da tempo chiediamo di uniformare la documentazione richiesta alle coppie in tutti e 29 i tribunali per i minorenni, in modo tale da rendere più fluida la possibilità di essere presi in considerazione in più luoghi» commenta Ivana Lazzarini, presidente di ItaliaAdozioni, un’associazione di promozione sociale che lavora sul territorio nazionale. «Al momento la discrezionalità è imperante. Per esempio, a Bari e Firenze richiedono alle coppie il test dell’Hiv e della tubercolosi, mentre a Salerno domandano anche visita psichiatrica in una struttura pubblica, Rx al torace, epatite b, epatite c, dosaggio alcolemia e droghe da abuso. L’ideale sarebbe arrivare a una banca dati nazionale delle coppie idonee». Le difficoltà, a sentire chi quotidianamente maneggia la materia, sono molteplici. «Una delle principali è l’assurda complicazione burocratica che rallenta tutto senza offrire alcuna tutela reale per il minore. L’idoneità delle famiglie viene valutata da servizi sociali spesso privi di personale qualificato: assistenti sociali giovani e inesperti, con pochissima preparazione sulla complessità dell’adozione» riflette l’avvocatessa Michela Scafetta, dell’omonimo studio legale milanese che si occupa da decenni del tema.
Ma come si scelgono i minori che possono essere adottati? Perfino in questo caso, ci si infila in una gimcana complessa e dalle variabili geografiche. «Anche per loro» precisa Negri, «deve essere incardinato un procedimento giudiziale avanti il Tribunale per i minorenni, a seguito del quale una sentenza riconosca lo stato di adottabilità e si possa aprire il procedimento». Un piccolo scossone alla materia è arrivato nel 2021 attraverso una relazione congiunta del ministero della Giustizia e del ministero del Lavoro che hanno analizzato a livello nazionale l’arco temporale 2012-2019. «Le sentenze di adozione nazionale legittimante oscillano mediamente attorno ai mille casi l’anno. Ma è ravvisabile una chiara tendenza alla riduzione dei casi» continua Negri. E così, nello specifico: si va da un valore massimo di 1.108 casi registrato nel 2014, a un minimo di 850 casi nel 2018. Le adozioni in casi particolari sono contraddistinte da una maggiore stabilità (una media di 650), mentre le domande di disponibilità all’adozione nazionale passano nello stesso periodo dai 10.244 casi agli 8.108 del 2021 (-21 per cento). «Questi dati» dice ancora l’avvocato Negri «evidenziano il divario in termini numerici esistente tra le domande di potenziali genitori e minori. Una distanza che è quantificabile in 6-7 domande di adozione ogni minorenne. Anche per questo motivo sono sempre meno le coppie disponibili a intraprendere un percorso complesso, con probabilità molto elevate di non ottenere mai un bimbo in adozione, pur essendo state dichiarate idonee». Di certo è arduo avere un quadro preciso della situazione in mancanza di dati aggiornati – gli ultimi risalgono al 2021 – e di una banca dati nazionale relativa al numero di bambini nati con il parto in anonimato o di quelli lasciati negli spazi protetti, le cosiddette «culle per la vita».
Ci sono poi storie che destabilizzano i genitori in attesa. Come quella, a fine 2024, di Cacao – nome scelto dai genitori intenzionali per proteggere la sua identità. Il bambino di tre anni è stato riportato dai genitori adottivi, con cui aveva trascorso otto mesi, alla madre biologica, anche se giudicata inadeguata dal Tribunale dei minori di Ancona. Il caso è finito al centro dell’interrogazione parlamentare dei deputati Pd Irene Manzi, Augusto Curti, Anthony Emanuele Barbagallo, impegnati sul fronte della continuità degli affetti. «Si tratta di una battaglia che abbiamo intrapreso per tutti i genitori che si trovano in una condizione uguale alla nostra» commenta la madre adottiva del bambino che vive a Pesaro. Per quanto poco noto, infatti, esiste nell’affidamento «a rischio giuridico» la possibilità che la famiglia di origine o un parente fino al quarto grado faccia ricorso – nonostante un decreto di «collocamento provvisorio» a una coppia che ha dichiarato la propria disponibilità – per rivendicare la potestà del minore alle corti d’Appello e poi in Cassazione. In questo modo le coppie portano nella loro sfera affettiva un bambino che non è ancora adottabile e potrà non esserlo in futuro. Le adozioni «a rischio giuridico» sono nate per dare la possibilità ai minori di non rimanere nelle comunità e di avere una famiglia, anche se temporanea, mentre si conclude l’iter giuridico che li riguarda. Si tratta dunque di trovare coppie disposte a questo percorso. Una situazione spesso tormentata, perché i genitori sono sempre meno disponibili ad avere un «ruolo di ponte» e a relazionarsi con la famiglia biologica del bambino. «Anche per questo essere genitori adottivi» prosegue l’avvocatessa Michela Scafetta «è molto più difficile che essere genitori biologici: significa accogliere un bambino con un passato doloroso, spesso con traumi e problematiche psicologiche. Eppure lo Stato si ostina a rendere l’adozione un labirinto burocratico anziché concentrarsi sulla reale capacità della famiglia di accogliere un minore. Adottare non vuol dire avere un figlio per desiderio egoistico. Significa piuttosto mettere in gioco la propria vita e quella di coppia per un’altra persona». Un impegno che viene reso, giorno dopo giorno, sempre più complesso.
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