Vogliamo davvero alimentare ancora l’ultra fast fashion di Shein e Temu?

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Tutti i grandi brand della moda, chi con convinzione e chi perché obbligato dalle normative, stanno almeno iniziando a lavorare con la propria filiera per migliorare il profilo ambientale e sociale della produzione. Tutti tranne i grandi colossi cinesi dell’e-commerce, Shein e Temu. Se parliamo di moda, non possiamo non aprire un capitolo su questi marchi che si sono fatti conoscere nel mondo perché propongono prodotti carini e sempre nuovi, spingendo il consumo a basso costo e cercando di evitare i consumatori che si facciano altre domande.

Il loro modello, chiamato ultra fast fashion, per reggere i prezzi e la velocità che propone non può avere nulla di sostenibile: il catalogo di prodotti è interminabile, la qualità è bassissima (così come i prezzi) e i sistemi di referral e codici sconto spingono l’utente a comprare, comprare e comprare. Senza domandarsi se quegli oggetti gli servono davvero, quanto dureranno, che fine faranno quando inizieranno a rovinarsi (cosa che, inevitabilmente, accadrà presto), come sono state trattate le persone che li hanno realizzati.

Per i giornalisti non è facile avvicinarsi alle fabbriche ma, quando ci riescono, restituiscono testimonianze agghiaccianti. Tra le ultime inchieste in ordine di tempo c’è quella della BBC, i cui corrispondenti in Cina hanno visitato le fabbriche di una decina di fornitori di Shein. Scoprendo che “il cuore pulsante di questo impero è una forza lavoro che sta seduta dietro le macchine da cucire per circa 75 ore a settimana, contravvenendo alle normative cinesi sul lavoro”. Con un solo giorno di riposo al mese. Tutto questo a fronte di un pagamento che in molti casi è a cottimo: un’operaia intervistata parla di meno di un euro per cucire una T-shirt.

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Eppure, economicamente questo modello funziona. Temu nel primo semestre del 2024 ha incassato 20 miliardi di dollari, una cifra più alta rispetto all’intero 2023 (quando si era fermato, per così dire, a 18 miliardi). Secondo gli analisti, Shein nel 2024 avrebbe sfondato il tetto dei 48 miliardi di dollari di fatturato, un aumento vertiginoso rispetto ai 2,5 miliardi del 2019. E da mesi si prepara a quotarsi alla Borsa di Londra.

Funziona così, quindi? Nonostante tutte queste discussioni sulla sostenibilità, alla fine il mercato premia chi pensa solo ed esclusivamente a vendere, con buona pace dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori? I numeri suggeriscono questo, ma non sarà così per sempre. Perché nemmeno Shein e Temu sono autorizzati a credersi al di sopra delle regole. Lo dimostra la Commissione europea che, dopo aver avviato lo scorso novembre un’azione esecutiva contro Temu per alcune pratiche lesive della tutela dei consumatori, ora interviene per contrastare il commercio di prodotti dannosi in arrivo da Paesi extra-europei. E chiede di accelerare sulla riforma doganale che impone i dazi anche sui pacchi da meno di 150 euro. D’altra parte, nel 2024 sono passati per i confini europei 12 milioni di pacchi al giorno contenenti beni di piccolo valore, cioè entro i 22 euro. Il triplo rispetto al 2022. Beni che spesso e volentieri sono contraffatti e, in ogni caso, sono fabbricati seguendo normative ambientali più morbide rispetto a quelle europee. Insomma, non è un’esagerazione parlare di concorrenza sleale.

E non è finita qui, perché lo scorso anno le istituzioni europee hanno trovato un accordo anche sulla CSDDD. Si tratta di una direttiva che impone alle imprese di esercitare la due diligence, cioè la vigilanza sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nella catena di fornitura: in caso di violazioni, il brand viene ritenuto responsabile e obbligato a intervenire. C’è un dettaglio che molti dimenticano: questa normativa si applica anche alle imprese che hanno sede al di fuori dell’Unione europea, se registrano nell’Ue un fatturato netto al di sopra dei 450 milioni di euro nell’esercizio finanziario. E anche alle aziende o società madri di gruppi che hanno stipulato accordi di franchising o di licenza all’interno dell’Unione europea. Insomma, Shein e Temu rientrano pienamente nel perimetro della direttiva, sebbene con tempistiche un po’ dilatate (a partire dal 2029).

C’è la possibilità che subentri qualche cambiamento prima della sua entrata in vigore, perché la Commissione europea – anche su pressione del mondo industriale, spaventato dall’eccesso di burocrazia – sta lavorando a un pacchetto Omnibus che semplificherà il corpus normativo sulla sostenibilità. Ma la direzione è tracciata e da qui non si torna indietro. Quindi mi chiedo: abbiamo davvero bisogno di norme, regolamenti e sanzioni per analizzare criticamente a chi diamo i nostri risparmi? Sappiamo che non è facile né scontato avere a disposizione un reddito sufficiente per far fronte a un costo della vita sempre più alto: siamo proprio certi di volerlo disperdere in tanti oggetti che rappresentano la mancanza di rispetto verso le persone e il nostro Pianeta? Vogliamo essere riconosciuti davvero per questi valori?



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