A chi soffre lo Stato garantisca cure, non l’aiuto a suicidarsi

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Un prericovero che rimanda di tre mesi il ricovero, un elettrocardiogramma fissato al 2029… Sono esperienze che noi tutti facciamo e che rivelano un’organizzazione sanitaria in affanno, che non sempre riesce a soddisfare il fondamentale diritto alla salute garantito dall’articolo 32 della Costituzione e a offrire cure gratuite «agli indigenti». Da qualche tempo è vivace il dibattito sulle difficoltà del Servizio sanitario nazionale e sulla grave mancanza di medici, operatori sanitari e oss nelle strutture pubbliche, con gravi ripercussioni per le situazioni cliniche più complesse o per le patologie dolorose e inguaribili. Si dibatte poi di un’altra questione, tutt’altro che slegata: quella della legge sul suicidio medicalmente assistito.

È l’espressione “medicalmente” che dovrebbe interrogare e inquietare le coscienze. Ed è a queste che vogliamo fare appello per invitare a una valutazione responsabile delle ricadute che una legge che normalizzi l’aiuto al suicidio avrebbe non solo sul sistema sanitario nazionale ma sull’intero ordinamento giuridico.

Anziché inclusione, solidarietà e cura, ai malati più gravi si offrirebbe l’anticipazione della morte. Quello stesso sistema sanitario inadempiente e in affanno, anziché prendere in carico il paziente e curarlo fin quando è appropriato con gli strumenti che la medicina oggi ha a disposizione, darebbe la “nuova” prestazione della morte anticipata, lasciando il paziente alla sua “autodeterminazione” (e alla complicità di certi familiari). Sarebbe questa la libertà di scelta? La stessa Corte costituzionale ha messo in guardia dal rischio che una legislazione permissiva sul suicidio assistito eserciti una «pressione sociale indiretta» sulle persone malate o semplicemente anziane e sole, «le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e decidere così di farsi anzitempo da parte».

Se viene meno una cultura compassionevole e solidale non progredisce neppure la medicina palliativa, la quale, nonostante l’ottima legge 38/2010 – che quest’anno compie 15 anni –, ancora non si traduce in servizi di assistenza di qualità uniformi sul territorio nazionale.

La polemica, nelle ultime settimane, si è spostata sulla competenza regionale oppure statale quanto alla competenza a legiferare in materia di fine vita, distogliendo l’attenzione dalla questione che è più a monte: la scelta di trasformare o meno il suicidio assistito in norma, in procedura, in routine. L’alternativa che si pone non è solo quella fra un sistema frammentato (regionale) e uno omogeneo (statale), ma fra il rimanere in quell’area di non punibilità individuata dalla Corte costituzionale «senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici» o, invece, introdurre nel Ssn procedure sistematiche e organizzate di aiuto al suicidio.

Certo, la Corte ha invitato il Parlamento a legiferare. Ma ha altresì ricordato che il diritto alla vita implica il dovere della Repubblica di tutelare la vita degli individui, specie dei più deboli e vulnerabili, assicurando ai pazienti «tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate dalle patologie di cui sono affetti; e assieme il dovere di assicurare loro ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale, psicologica». É molto arduo tenere insieme tutto ciò. Qualora infatti, pur con tutte le garanzie sostanziali e procedurali, si introducesse la categoria di soggetti “suicidabili”, nei cui confronti è lecito procurare la morte, è evidente che questi malati verrebbero percepiti come meno degni di vivere degli altri. Cosa ne sarebbe del principio di uguaglianza, della pari dignità sociale e della tutela della vita dei soggetti fragili?
In verità la Corte costituzionale ha riconosciuto «un significativo spazio alla discrezionalità del legislatore, al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza. Il che esclude possa ravvisarsi, nella situazione normativa attuale, una violazione del loro diritto all’autodeterminazione».

Prima di introdurre il diritto al suicidio, lo Stato dovrebbe garantire le cure che, senza accanimento, aiutino a sopportare degnamente la malattia. Un corollario che meriterebbe un grande approfondimento riguarda anche quanto il Ssn offre ai familiari, e comunque alla comunità intera, in termini di servizi per le più gravi disabilità. Sofferenza fisica e dolore psichico, senza adeguati sostegni, possono rendere insopportabile vivere. Qui si misura il livello di civiltà che vorremmo caratterizzasse la nostra comunità.
* Già Ministro della Salute, componente del Comitato nazionale per la Bioetica
** Ordinario di Diritto costituzionale – Università La Sapienza, componente del Comitato nazionale per la Bioetica





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