Un consiglio a tutti gli appassionati di vino e in particolare di Barbaresco: la prossima volta che girerete da quelle parti fermatevi nella nuova cantina di Carlo Giacosa. Questo per due motivi: per i vini e per Carlo Giacosa. Se proprio devo dirla tutta metterei al primo posto Carlo Giacosa, non perché i vini non siano buoni, anzi, ma perché parlare con questo signore di 84 anni, che dal 1958 (!!!) ha lavorato in vigna, sia nella sua amata Montefico che in Ovello, in Asili e in molte altre vigne della denominazione, ti permette di apprezzare un pezzo di storia di questa terra narrata con semplicità e amore.
Appena finite le scuole elementari ad Alba il padre Damiano gli fece capire che era giunto il momento di lavorare con lui in vigna e anche quando, appena maggiorenne, stava pensando di andarsene da Barbaresco vicende familiari lo tennero ancorato a suoi due ettari che oggi sono diventati cinque.
La sua storia è un film girato nel vigneto e non è un modo di dire: nel 1990 vede che Gaja butta in terra enormi quantitativi di uva ad agosto e lui subito va a chiedere il perché. Li impara “il segreto” del diradamento e da allora lo ha sempre fatto. E’ in vigna che ha ricordi del padre, dei momenti in cui gli spiegava le attenzioni per prevenire oidio e la peronospora, un padre che era uno dei pochi “innestini” di Barbaresco e per questo molto considerato. E’ dalla vigna che giudica i vini di altri, perché se uno lavora in un certo modo poi i risultati non possono essere (in positivo o in negativo) che quelli. E’ “colpa” della vigna se l’azienda è rimasta piccola, perché aveva più volte ricevuto proposte per fare società dove lui si sarebbe dovuto occupare della cantina, solo che non si fidava a far lavorare le sue vigne (e anche altre…) a persone che non fosse lui stesso. Anche per questo oggi l’azienda Carlo Giacosa ha un solo operaio, con loro da 25 anni, che assieme alla figlia e ai nipoti cura il vigneto. Quindi niente squadre ma solo un lavoro fatto in famiglia.
Carlo da quest’anno, causa qualche acciacco da ottanquattrenne, scende meno in vigna ma, sorridendo e quasi guardandosi attorno come se fosse un mezzo segreto mi ha confidato che un po’ di potature è riuscito a farle. A farle con mani “da contadino” che da sole potrebbero raccontare tutta la sua storia. Del resto uno che aveva anche in gestione l’unica tabaccheria di Barbaresco di storie di paese e di vigna ne potrebbe raccontare moltissime, a partire da quando il padre, assieme ad altri 18 agricoltori, fondò nel 1958 la cooperativa Produttori del Barbaresco.
Lo fotografo nella nuovissima cantina di invecchiamento, voluta dalle nuove generazioni, e mentre lo dice sorride perché è felice che il suo lavoro venga continuato dalla figlia Maria Grazia, ora titolare dell’azienda, e dai nipoti. Anche nella cantina di vinificazione c’è giusta modernità ma quando andiamo a assaggiare dalle vasche Carlo tira fuori tre bicchieri “da acqua”, forse perché i calici che poi useremo in degustazione sono troppo moderni e raffinati per capire l’anima di un vino mentre sta nascendo.
Ma quei calici vanno benissimo invece quando assaggiamo i vini in bottiglia, tra cui spiccano i quattro Barbaresco, un “base” e tre MGA da Ovello, Montefico e Asili. Sono vini che uniscono chiarezza stilistica alle caratteristiche delle sue vigne: un ancora ombroso Ovello, un profumatissimo e fine Montefico, un dirompente Asili. Tre vini di cui si potrebbero dire molte cose ma forse l’unica frase da dire è che sono buoni. Buoni perché sanno di nebbiolo senza tanti fronzoli, perché hanno equilibrio, tannicità viva ma dolce, profumi intensi e profondi. La mia vecchia idea che i vini assomigliano a chi li fa e viceversa trova conferma anche questa volta: sono vini tranquilli e veritieri: non hanno bisogno di stupire perché sanno che sono stati fatti bene, con saggezza e attenzione contadina, cosa che oggi si trova sempre meno.
Andate a trovare Carlo Giacosa e mentre assaggiate i suoi vini fatevi raccontare le sue storie di vigne, come quella di quando guardando il pinot nero di Gaja ammirava quei grappolini, molto diversi da quelli grossi e lunghi visti in altre vigne di pinot nero. Così, in una parte di una vecchia vigna di dolcetto, piantò del pinot nero borgognone che oggi è nell’ultima bottiglia che stappiamo. Ultima che stappiamo ma non ultima che assaggiamo, perché è giusto tornare un attimo ai profumi del Montefico, MGA che lui difese a spada tratta quando Gino Veronelli, a cui purtroppo rimaneva poco tempo per camminare ancora le vigne, non la inserì tra i migliori cru di Barbaresco.
Del resto anche sua moglie Carla, quando circa 64 anni fa (sono 61 di matrimonio…) da Canelli venne per la prima volta, accompagnata dai genitori, a pranzo a casa di Carlo, confidò a suo padre che il vino bevuto a tavola era “gramo”, scatenando la reazione quasi indignata del futuro suocero di Carlo che invece aveva apprezzato moltissimo il Barbaresco. Oggi però la signora non solo apprezza il nebbiolo ma è diventata il palato più fine della famiglia, quello di cui Carlo si fida ciecamente.
Andate a a trovare Carlo Giacosa, un agricoltore con la “A” maiuscola che produce Barbaresco con la “B” maiuscola: vini che dovrebbero essere molto più conosciuti e apprezzati perché molto buoni e molto veri.
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