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Giulia Ligresti, figlia dell’imprenditore italiano Salvatore, da tutti conosciuto come il vicerè di Milano, e travolta dall’inchiesta giudiziaria sulla Fondiaria Sai, si racconta al Corriere della Sera.
L’occasione è l’uscita della sua autobiografia, Niente è come sembra, edita da Piemme.
Candida Morvillo le chiede se se la sente di rievocare un’altra immagine di sé, quella più dolorosa del luglio 2013, quando fu arrestata con il padre e i fratelli nell’inchiesta sulle presunte false riserve sinistri della Fondiaria Sai. Finì in custodia cautelare. Poi, nel 2018, tornò in carcere per scontare la pena patteggiata di due anni e otto mesi. Ma tre settimane dopo fu scarcerata con un colpo di scena e, infine, assolta: “Perché il fatto non sussiste”.. “Quella con la maglietta grigia, al tribunale di Torino?” chiede.
Il ricordo del momento più doloroso: l’interrogatorio
Era magrissima, pallida, spaventata, scortata dagli agenti verso l’interrogatorio che avrebbe deciso il patteggiamento. “Ero un fantasma che cammina. Quel giorno ho giurato a me stessa che non sarei mai più stata così e che nessuno avrebbe più avuto il potere di spezzarmi. Il terrore si mescolava allo stupore. Da un momento all’altro, mi avevano strappata ai miei tre figli e chiusa in una cella sorvegliata, senza che ci fosse ancora stato un processo. La cosa che mi tormentava di più? Sapere che tutto questo era stato voluto da un altro essere umano. Non da un tiranno, non da un dittatore. Da qualcuno che, forse, aveva figli come me. Eppure, aveva scelto di infliggermi quel dolore”.
Le accuse
Le accuse erano gravi: falso in bilancio aggravato, false comunicazioni sociali, manipolazione del mercato. “Io sapevo di essere innocente. E credo che lo sapessero anche loro. Il carcere preventivo dovrebbe essere usato solo in presenza di un reale pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove. Io dove potevo scappare con tre figli?”
Cosa pensa della giustizia oggi
Oggi pensa che la giustizia dovrebbe essere affidata a un’intelligenza artificiale: “Senza interpretazioni umane. Si inseriscono i fatti, le norme, e arriva il verdetto”.
Perché patteggiò, allora? “Per tornare dai miei figli. Il più piccolo aveva undici anni. Mi fecero capire che, se non avessi accettato, sarei rimasta in carcere a lungo. Per tornare a casa, avrei ammesso anche di aver ucciso Giulio Cesare”.
Nel libro racconta di essersi odiata per la sua fragilità. “Successe dopo un interrogatorio. Avevo la sensazione che l’unica persona con il potere di salvarmi fosse anche quella che mi stava interrogando. Non era proprio una sindrome di Stoccolma, ma mi sentivo completamente impotente. La seconda volta, invece, quando vennero a prendermi per portarmi a San Vittore, ero pronta. Mi sentivo come Louis Zamperini in Unbroken“.
Cioè? “Un prigioniero americano in un campo giapponese, che cercano di spezzare in ogni modo, ma lui resiste. Lui e Nelson Mandela sono stati i miei modelli. Pensavo: Se Mandela ha resistito 27 anni, io posso farcela. Correvo nel cortile di San Vittore, facevo quindici chilometri al giorno. Insegnavo yoga alle altre detenute, ero diventata la loro personal trainer. Mi chiedevano esercizi per gli addominali o per dimagrire. Fu surreale: mi sentivo protetta da chi il mondo considera ai margini, mentre quelli che stavano fuori, i ‘buoni’, erano diventati i ‘cattivi'”.
La svolta arrivò con l’assoluzione del fratello Paolo. Da lì, nel 2019, Giulia riuscì a ottenere la revisione del processo e la sua assoluzione. Non aveva mai perso la speranza? “Mai. Neanche quando, con mio fratello già assolto, mi negarono l’affidamento ai servizi sociali. So che l’universo, alla fine, rimette sempre a posto le cose”.
Il nuovo lavoro oggi, lontano dai Cda
Un tempo era nei consigli di amministrazione di Sai, Pirelli, Telecom, IEO. Vicepresidente di Fondiaria Sai, presidente e AD di Premafin. Ora cosa fa? “Ora sono una designer. Era il mio sogno, ora è il mio lavoro. Ho iniziato con una panca con la scritta ‘love’ sullo schienale. L’ho portata alla gallerista Rossana Orlandi, è piaciuta. Da lì è nato un marchio, e oggi mi rappresenta una galleria a New York. Credo che tutti viviamo tante vite. Questa è la mia adesso. E spero non sia l’ultima”.
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