Il calo demografico è un problema, ma gli allarmismi non salveranno nessuno

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Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di World Review del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse. O in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia dal 28 dicembre.

Per molto tempo siamo stati abituati a sentirci ripetere una ricorrente preoccupazione di tipo demografico: stavamo correndo troppo velocemente verso una popolazione mondiale eccessiva. Ma poi, accanto a quella, si è diffusa anche la preoccupazione opposta: stiamo correndo verso lo spopolamento, nascono troppo poche persone, c’è un calo troppo veloce delle nascite. E, in effetti, in tutto il mondo, man mano che i Paesi diventano più ricchi il loro tasso di fecondità crolla. Di primo acchito, non verrebbe da pensare che il tasso di riproduzione sia destinato a calare così tanto ogniqualvolta una società diventa più ricca. Il denaro rende la vita più facile e, di regola, quando si hanno più risorse per potere provvedere al sostentamento dei figli dovrebbe risultare più agevole farne un numero maggiore. Invece, i tassi di fecondità continuano a diminuire. Jennifer D. Sciubba, studiosa di scienze politiche e demografa, ha scritto il libro “8 Billion and Counting”. Le ho chiesto che cosa ci dicano in realtà i numeri relativi alla popolazione, che cosa ci raccontino delle diverse regioni del mondo e come potrebbero evolversi.

Quella che segue è la sintesi di una conversazione tra me e Jennifer D. Sciubba nell’ambito del podcast The Ezra Klein Show.

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Mi spieghi che cos’è il tasso di fecondità totale.
Il tasso di fecondità totale è il numero medio di figli nati per ciascuna donna nel corso della sua vita. È un’ottimo metodo di misurazione perché con un solo numero si può avere un’istantanea da confrontare nel tempo e nel luogo.

Che cosa può dirci dell’attuale tasso di fecondità totale e di come esso si stia differenziando nei diversi luoghi del mondo?
Se guardiamo alla popolazione globale del secolo scorso, abbiamo assistito a una crescita esponenziale, dal miliardo e 600 milioni di abitanti dell’inizio del Novecento ai 6,1 miliardi registrati alla sua conclusione. Oggi le donne hanno in media, in tutto il mondo, circa 2,2 figli ciascuna. Si tratta, in pratica, del cosiddetto “livello di sostituzione”. Ma in questo secolo ci troviamo, almeno per ora, nel contesto di una biforcazione demografica globale. In alcuni luoghi abbiamo tassi di fecondità molto bassi, mentre in altri posti i tassi di fecondità sono ancora elevati.

Se guardiamo il mondo nel suo complesso, i Paesi ricchi e quelli più istruiti sono quelli in cui nascono meno figli. Perché la ricchezza porta a riprodursi di meno?
C’è stato un enorme cambiamento nei valori e nelle norme sociali. Io ho due figli. Ma ho anche degli altri valori che vanno al di là del semplice desiderio di avere dei figli. Ad esempio, do importanza al tempo che passo con gli amici o con il mio coniuge. E alla mia carriera. Penso che questa modifica nella scala dei valori abbia un ruolo importante. Man mano che siamo più istruiti, che abbiamo più opportunità di guadagno fuori di casa, che il nostro tenore di vita aumenta, si modifica il numero di figli che vogliamo perché questo desiderio entra in competizione con altri obiettivi.

Ci sono casi estremi – penso alla Corea del Sud, che credo sia ora al di sotto di un tasso di fecondità 1 – in cui non si è riusciti a invertire la rotta. Perché le scelte politiche non hanno effetto?
Le scelte politiche da parte di uno Stato sono piuttosto efficaci quando si tratta di portare una società da un tasso di fecondità alto a uno basso. Ma in genere sono piuttosto inefficaci quando si tenta di ottenere l’effetto inverso in tempi rapidi. Ecco perché dico che questo per noi è un cambiamento permanente. I politici, come noi ricercatori, vorrebbero isolare delle singole variabili. Se si riuscissero a individuare uno o due motivi principali per cui in un Paese c’è un tasso di fecondità molto basso, allora si potrebbero probabilmente fare delle scelte politiche per invertire la tendenza. Ma è davvero difficile individuare una singola variabile su cui intervenire. E torniamo così al punto di partenza: come possiamo fare per individuare delle motivazioni principali nell’ambito di un’intera società? I casi estremi possono insegnarci qualcosa. In tutta l’Asia orientale, che è una delle regioni con il tasso di fecondità più basso al mondo, c’è un elemento comune. Ricordo di aver studiato come le giovani donne giapponesi venissero sostanzialmente biasimate dai media se vivevano una vita individualista, invece di sposarsi, “sistemarsi” e avere dei figli. E credo che questo fosse il segnale che si fossero diffuse scelte di questo tipo. C’è l’idea che il matrimonio non sia più necessario per avere una buona vita. Una persona può avere un lavoro. Può guadagnarsi da vivere da sola. E, in realtà, il matrimonio non solo non è più necessario, ma potrebbe addirittura soffocare la vita di una persona a causa delle gerarchie basate sul genere che spesso si instaurano all’interno di una famiglia. In Corea del Sud esiste il congedo di paternità. Ecco: questa è una politica statale, no? Ma gli uomini non prendono il congedo di paternità. E questo deriva da quel tipo di valori e di norme culturali che sono difficili da modificare e hanno un grande ruolo nel contrastare la possibilità di introdurre dei cambiamenti attraverso delle politiche statali o quantomeno nel ridurre l’efficacia che tali politiche possono avere. Ci potrebbero forse essere dei modi per evitare che questo succeda – e, chissà, la ricerca dovrebbe impegnarsi proprio nel tentativo di capire come si possa provare a cambiare una cultura per mezzo di iniziative politiche.

C’è stato l’esempio – che io trovo orribile – della Romania. Quali altri casi le vengono in mente? E poi mi dica: ce n’è mai stato qualcuno che si sia rivelato efficace a lungo termine?
Quando si cerca di far aumentare il tasso di fecondità ci si prefigge di solito di portarlo fino al livello di sostituzione. E il motivo per cui ci si pone questo obiettivo è che in questo modo si otterrebbe una bella struttura per fasce di età, con un numero costante di persone che nascono, che entrano nella forza lavoro e che ne escono. Ma che cosa può fare uno Stato affinché il proprio tasso di fecondità torni al di sopra del livello di sostituzione? Beh, ad esempio può limitare i diritti individuali. Ovviamente io non penso che sia opportuno agire in questo senso, ma abbiamo l’esempio di qualcuno che lo ha fatto. In Romania, dove il tasso di fecondità era già basso, Nicolae Ceaușescu disse: «Voglio più bambini romeni». E quindi? Fece più o meno l’inverso di quello che avrebbe poi fatto la Cina in occasione di alcune delle sue politiche demografiche, come quella del figlio unico: ostacolò la contraccezione e si assicurò che le donne non potessero avere accesso all’aborto legale. Si registrò così un aumento delle nascite. Ma aumentò anche la mortalità materna. E si verificarono molti problemi sociali. Il tasso di fecondità romeno aumentò solo finché Ceaușescu tenne premuto il suo pollice sul bottone. Ma, non appena il dittatore perse il potere, il tasso di natalità tornò a scendere. Non abbiamo esempi in cui una società che era scesa molto al di sotto del livello di sostituzione sia poi tornata a superarlo e si sia infine mantenuta lì, stabile, rendendo tutti felici e contenti.

La bassa fecondità è una minaccia? È certamente intuibile che un Paese sarebbe più forte se avesse un tasso di fecondità di 2,2 o di 2,5 piuttosto che di 1,4 o di 1,2. Lei che cosa ne pensa?
Se consideriamo la faccenda in un orizzonte più ampio e vediamo come i tassi di fecondità a livello globale siano scesi da sei, sette figli per donna, fino agli attuali due, beh, quella è una storia positiva. Ci siamo dati da fare per decenni per arrivare a questo obiettivo. Non è meraviglioso sapere che ora possiamo avere meno figli e sentirci sicuri che quelli che abbiamo arriveranno fino all’età riproduttiva? È così che le società effettuano la transizione demografica da un’alta fecondità a una bassa. Dovremmo quindi festeggiare, in generale, per il fatto di aver raggiunto il livello di sostituzione. E, anche se dovessimo scendere un po’ al di sotto del livello di sostituzione, la cosa non mi allarmerebbe. Tuttavia, mi allarmerei se il tasso scendesse eccessivamente. E le spiego perché. Se mi si parlasse di un ipotetico Paese il cui tasso di fecondità è di sette figli per donna e questa fosse l’unica cosa che mi viene detta di quel Paese, da questo potrei dedurre molte cose negative. Potrei dire che probabilmente in quel Paese le donne e le ragazze non ricevono una buona istruzione. Che probabilmente i suoi cittadini non godono di un’assistenza sanitaria di buona qualità. Che probabilmente è difficile trovare lavoro. E che probabilmente la cosa pubblica è gestita in modo scadente. All’estremo opposto, se mi si dicesse che un Paese ha un tasso di fecondità che si aggira intorno a un figlio per donna, potrei dire, per certi versi, che anche quel dato è il riflesso del fatto che in quella società ci sono alcune cose che non vanno. Mentre ritengo che in generale una fecondità bassa sia un elemento positivo, dobbiamo analizzare con più attenzione i casi in cui il tasso di fecondità è molto basso. Forse in quel Paese le persone non sono ottimiste riguardo al futuro? Perché avere dei figli è la massima dimostrazione del fatto che si ha fiducia in un futuro roseo. Forse in quel Paese le persone si sentono depresse se pensano al futuro ed è per questo che non vogliono avere figli? Oppure in quel Paese le persone non possono permettersi di acquistare una casa in giovane età? O si sentono forse isolate e insicure? Perché, se le cose stanno così, allora ci sono degli aspetti di quella società che andrebbero migliorati, anche a prescindere dal tasso di fecondità. E forse l’effetto collaterale di un intervento in questo senso, la sua esternalità positiva, potrebbe essere un aumento del tasso di fecondità. Mentre il semplice tentativo di modificare quel numero non rimuoverebbe le ragioni che hanno determinato che quel numero sia diventato così incredibilmente basso.

Una cosa che si sente spesso dire è che avere figli è straordinariamente costoso. Ma, ovviamente, le persone che hanno più figli sono più povere. Lei che cosa pensa del fatto che la genitorialità sia diventata un’attività ad alta intensità di capitale e di tempo ora che le persone hanno più capitale e più tempo da investire?
Credo che sia estremamente importante prendere in considerazione questo fattore se vogliamo provare a spiegare perché negli Stati Uniti le persone abbiano meno figli. Ovviamente, non si tratta solo di denaro, perché oggi abbiamo tutti più soldi di quanti non ne avessimo in precedenza. È più una questione di intensità. Ho amici che hanno delle squadre di figli e – oh mio Dio – servono un sacco di soldi e un sacco di tempo. E una delle mie amiche, una mamma casalinga, mi chiede: «Ma come fanno le famiglie in cui lavorano entrambi i genitori?» La risposta a questa domanda è ovvia: o ci si fa prescrivere un ansiolitico da buttar giù alla mattina o si cerca di farsi aiutare, anche se è difficile. Si tratta di un’attività genitoriale molto intensa. Ma questa è la cultura attuale. Osserviamo situazioni analoghe anche altrove. In Corea del Sud alcuni politici hanno preso in considerazione l’idea di modificare alcuni dei requisiti degli esami di ammissione (alle migliori scuole e università, ndr) per alleviare un po’ della pressione che grava su genitori convinti che ogni figlio debba essere cresciuto in modo superintensivo e perfetto. La speranza è che misure di questo tipo possano modificare la cultura dominante riguardo ai problemi connessi al numero di figli che è opportuno avere. Quindi, sì, credo che simili iniziative possano fare un’enorme differenza. Perché una giornata è fatta solo di ventiquattro ore.

Quelli che pensano che ci sia un problema di sovrappopolazione sono preoccupati per il carico umano sul pianeta. Ma ci sono anche altri che ritengono che un forte calo demografico costituisca una catastrofe dal punto di vista della stabilità sociale. Lei che ne pensa?
Ci piace essere allarmisti sui temi demografici. Negli anni Sessanta eravamo allarmisti sul fatto che la popolazione fosse troppo numerosa. E oggi siamo allarmisti sul fatto che non lo sia abbastanza. Non mi piacciono le argomentazioni di quelli che sostengono che, se non facciamo figli, le società crolleranno in pezzi. No, non crolleranno. Cambieranno. Ma le società cambiano continuamente. A volte cambiano in meglio e a volte in peggio. Cerchiamo di essere chiari: qual è la conseguenza rilevante di un tasso di fecondità basso? Fin qui abbiamo parlato molto di bambini. Ma, in fin dei conti, un tasso di fecondità basso porta una popolazione a invecchiare. E quindi a ridursi. La gente equipara questo invecchiamento collettivo all’invecchiamento individuale. E tutti noi abbiamo una visione terribile, pessimistica e piena di timore dell’invecchiamento individuale. Quindi, dal momento che nella nostra immaginazione tendiamo a sovrapporre l’invecchiamento complessivo della popolazione a quello individuale, come potremmo non guardare con paura a un simile fenomeno?

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Ma, secondo lei, che futuro hanno quelle società che hanno un tasso di fecondità dell’1,5 o dell’1,6?
Sto cercando di trovare un equilibrio. Voglio dire che è molto importante prendere sempre in considerazione gli aspetti demografici, ma voglio anche dire che non dobbiamo arrivare al punto di limitare i diritti delle persone e che non possiamo concentrarci sui numeri relativi alle persone che popoleranno il mondo in futuro fino al punto di non occuparci più delle persone che già sono qui tra noi. Allo stesso tempo, però, credo che sia importante sostenere le famiglie e i bambini per il semplice motivo che è giusto sostenere le famiglie e i bambini. Perché altrimenti di che cosa stiamo parlando? Molte volte, quando citiamo dei numeri complessivi, ci dimentichiamo che quei numeri non sono altro che un aggregato di un insieme di decisioni individuali. E io voglio vivere in una società che sia ottimista per il futuro e in cui ci siano bambini, anziani e persone in età lavorativa. Per me è proprio questo il punto di partenza: dobbiamo vederci come esseri umani, come persone che hanno un valore in sé.

© 2024 THE NEW YORK TIMES COMPANY

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