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È folta la schiera degli editorialisti che, da decenni, con professorale sussiego, ci impartiscono lezioni di atlantismo: i Panebianco, i Galli Della Loggia, i Folli.
Da costoro sarebbe lecito attendersi che mettessero a tema il problema dei problemi all’ordine del giorno nella presente congiuntura e che manifestamente ha il sapore di una smentita dei loro dogmi e della loro predicazione.
Riassumo:
- Come conciliare europeismo e atlantismo a fronte della cesura rappresentata da Trump, compiacente con Putin e impegnato a disarticolare l’Unione europea anche attraverso l’attivo sostegno alle destre europee più oltranziste (un asse con la Russia e contro l’Europa messo a verbale persino nel voto sulle risoluzioni Onu)?
- Come ripensare l’enfasi sui valori dell’occidente considerata la vistosa divaricazione al riguardo tra Europa e Usa da sempre rappresentati, questi ultimi, quale modello, paese-guida, nonché “la più grande democrazia del mondo”?
Trump rompe gli schemi della religione dell’occidente
Per chi, specie con la guerra in Ucraina, ci ha istruito circa l’opposizione sistemica tra democrazie e autarchie rispettivamente incarnate da occidente e resto del mondo, quasi al modo di opposizione tra bene e male, non è facile digerire la ostentata liaison tra Trump e Putin. Né una “pace” siglata tra i due sulla testa degli ucraini e della UE in nome di interessi economici e geopolitici persino confessati senza vergogna. Sino alla imposizione di condizioni capestro dal sapore estorsivo a un paese martoriato.
Una bruciante smentita, una ingombrante mucca nel corridoio che dovrebbe suggerire semmai una qualche onesta autocritica e un motivo di pensosa riflessione. Non il dogmatismo atlantista, non il saccente manicheismo sempre uguale a se stesso. Quello che, nel caso nostro, ha condotto gli opinionisti mainstream e larghi settori della classe dirigente nostrani a dare generoso credito a basso prezzo alla leadership di Meloni in nome della sua estemporanea conversione a una acritica subalternità agli Usa, mostrandosi di manica larga verso i suoi controversi trascorsi, le sue contraddizioni, le sue vistose insufficienze.
Un atteggiamento compiacente e corrivo che ieri ispirava un approccio liquidatorio e persino insolente verso chi anche solo sollevava qualche interrogativo sulla insufficienza della sola escalation bellica in Ucraina, subito bollato come amico di Putin. Quello che oggi, al cospetto del clamoroso rovesciamento dei parametri di giudizio operato da Trump, costringe la nostra premier a schizofrenici funambolismi.
Dai soloni del dogma atlantista e della “religione dell’occidente” a guida Usa tanto inclini a impancarsi a maestri sarebbe lecito attendersi un cenno di ravvedimento nella loro inveterata abitudine di fare la caricatura delle posizioni – bollate come antiamericanismo ideologico di marca cattolica e comunista – di chi, più semplicemente, si domandava e si domanda se la visione del mondo in cui – sia chiaro – volentieri ci riconosciamo in quanto occidentali sia priva di criticità e di limiti; e se la pratica e i comportamenti siano sempre coerenti e all’altezza degli ideali proclamati in nome dell’occidente.
Il Grazie, Occidente!, titolo (con maiuscolo ed esclamativo) di un saggio recente di Federico Rampini – oggi impegnato a spiegare che Trump non è poi così male – ci può anche stare, ma senza farlo assurgere a fede religiosa in una ortodossia rivendicata in esclusiva.
Una riflessione critica sull’Occidente e i suoi contenuti
La estemporaneità e la portata della svolta Usa dovrebbe semmai suggerire una più estesa riflessione circa le scelte di fondo e di lungo periodo del nostro universo occidentale e, in esso, dell’Italia, con riguardo al passato e al futuro.
Mi è occorso di recente di leggere documenti che attengono al vivace dibattito dentro la Dc dell’epoca (1949) tra De Gasperi e Dossetti, critico, quest’ultimo, su un’adesione non adeguatamente istruita e meditata al Patto atlantico. A suo dire, senza un dibattito all’altezza di quello storico spartiacque.
D’accordo: la storia ha dato ragione a De Gasperi. Fu lui a volere l’adesione dell’Italia, più che gli stessi americani. A distanza di ottant’anni non è il caso di cambiare opinione, ma, forse questo sì, possiamo chiederci se non vi fosse qualche buona ragione anche da parte di chi nutriva riserve sul condizionamento economico, politico e soprattutto culturale che ne sarebbe sortito; ed eccepiva sulla rinuncia a una pur relativa autonomia strategica europea.
Lo spettacolo offerto dalla coppia Trump-Vance che, in mondovisione, infierisce e umilia Zelensky, sino a ieri dipinto come un eroe dai suddetti editorialisti, dovrebbe produrre in loro una qualche resipiscenza e, perché no, l’esigenza di dare una spiegazione che non si limiti a chiamare in causa il cattivo carattere del presidente Usa.
Fanno riflettere le parole di due personalità da sempre amici degli Usa e di sicuro non sospetti di catto-comunismo come Paolo Gentiloni (“oggi mi vergogno di questa America”) e Giuliano Ferrara, che ha stigmatizzato la pavida esitazione di troppi leader incapaci di opporre a Trump un loro sonoro e inequivoco NO.
Anche chi pensa – io stesso – che porre fine alla guerra sia un imperativo categorico non più differibile mettendo nel conto una pace che inesorabilmente sconti un tasso di ingiustizia (la “pace giusta” nelle condizioni date non è nel novero delle concrete possibilità) non può avallare il modo brutale, predatorio e cinico con il quale i dirigenti Usa pretendono di dettare la “pace” (si fa per dire) che piace a Putin e d’intesa con lui. Mettendo a verbale il trionfo di una visione del mondo che si fa beffe di ogni principio e di ogni regola.
- Pubblicato sul sito della rivista Appunti di cultura e politica (6/3/25, qui). I lettori e lettrici di SettimanaNews possono scaricare gratuitamente il volume Il ritorno della guerra – L’urgenza della pace curato dalla redazione di Appunti di cultura e politica.
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