I versi “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?” richiamano direttamente una delle poesie più celebri di Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Tuttavia, il testo riportato non è una versione autentica della poesia leopardiana, ma una rielaborazione o un adattamento che conserva alcune delle tematiche e delle immagini originali, pur discostandosi dal componimento ufficiale.
Il dialogo con la luna: simbolismo e ricerca di senso.
Nella versione autentica di Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il poeta utilizza la luna come metafora della natura indifferente, interrogandola sul senso dell’esistenza umana. Il pastore errante, protagonista della poesia, cerca risposte alle sue angosce esistenziali, ma non riceve alcun conforto, evidenziando il caratteristico pessimismo cosmico leopardiano.
I versi apocrifi riportati mantengono il tema del dubbio sull’esistenza, dell’indagine sul senso del tempo e della condizione umana, ma non corrispondono esattamente al testo originale di Leopardi. Questa discrepanza è importante da sottolineare, poiché il linguaggio e le immagini, seppur evocativi, differiscono dall’opera autentica.
La natura e l’indifferenza dell’universo.
Leopardi, attraverso il suo stile inconfondibile, esprime la solitudine e lo smarrimento dell’uomo di fronte alla vastità del cosmo. Nella versione originale, il pastore si interroga non solo sulla luna, ma anche sulle stelle, sul tempo che scorre e sul destino ineluttabile dell’uomo. Anche nella versione rielaborata si conserva il tema dell’incapacità umana di comprendere il senso dell’esistenza, ma in una forma differente e meno strutturata rispetto al componimento autentico.
Lo stile e la musicalità della poesia.
Leopardi usa una metrica fluida e musicale, con versi ampi e ritmici che conferiscono alla poesia un tono contemplativo e malinconico. I versi rielaborati mantengono una certa armonia e profondità, ma non seguono esattamente lo schema originale leopardiano, risultando un’interpretazione più libera e adattata ai temi leopardiani.
Motivi per leggere la versione autentica della poesia.
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è una delle più alte espressioni del pensiero leopardiano, un’opera che invita alla riflessione sul destino umano e sull’inaccessibilità della verità ultima. Per apprezzare appieno la grandezza di Leopardi, è consigliabile leggere il testo originale e analizzarlo nel suo contesto storico e filosofico che segue:
Autore: Giacomo Leopardi (testo originale)
Anno di composizione: 1829-1830
Genere: Poesia filosofica, lirica romantica
Valutazione: ★★★★★
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto oblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
star così muta in ciel,
che, con la mia greggia,
seggo su l’erbe; e quando, in cielo, alle stelle,
che paion tante faci
accese in olocausto
a qualche iddio, che forse in lor delira,
o forse anche si annoia;
e quando miro il cielo
arder così profondo,
e le vie luminose, in un baleno,
di tutti i campi tuoi;
e poi che, riguardando, io mi domando
in che, e come, e perché, viver si possa,
che significar possa
questo splendor, queste immense, profonde
ampie, smisurate volte,
e qual sia di lor fine;
allor che io miro quegli astri erranti,
e le stelle nel firmamento ardere,
e a che tante facelle,
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia,
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so.
Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’essere mio frale, e del luogo
che ci fu dato in sorte,
se alla miseria nostra è posto un freno,
che la dura necessità non franga,
o scampo alcuno,
che la Morte sia la sola fine;
e il desiderio è vano,
e vano ogni conforto,
e la speranza stessa,
una follia.
Considerazioni finali.
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è un capolavoro della poesia filosofica, in cui Leopardi riflette sul senso dell’esistenza umana, sull’indifferenza della natura e sull’inaccessibilità della verità. Il pastore, alter ego del poeta, si interroga sul destino degli uomini, senza ottenere risposte, mentre la luna, eterna e silenziosa, continua il suo corso nel cielo.
Questa poesia rappresenta uno dei punti più alti della riflessione leopardiana sul pessimismo cosmico ed è considerata una delle opere più emblematiche della letteratura italiana.
Conclusione: un testo ispirato, ma non autentico.
I versi riportati non appartengono interamente a Leopardi, ma ne riprendono temi e suggestioni. È importante distinguere l’opera originale dall’adattamento per comprendere la profondità e la coerenza del pensiero leopardiano.
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Che fai tu, luna, in ciel?
Dimmi, che fai, silenziosa luna?…
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
A chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa?
Ed io che sono?
Giacomo Leopardi
Poesia pubblicata sulla pagina facebook: Angeli e Poesia
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