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Oltre cinquant’anni di attesa, di inchieste, di processi. Ma per Brescia la ferita della strage di Piazza della Loggia non si è mai rimarginata. Ieri, davanti al Tribunale dei Minori, l’ultimo tassello della vicenda giudiziaria ha visto la pm Caty Bressanelli chiedere il massimo della pena possibile per Marco Toffaloni: 30 anni di carcere. L’uomo, oggi 68enne, all’epoca aveva solo 16 anni ed era militante del gruppo neofascista Ordine Nuovo. La sua colpevolezza, secondo l’accusa, emerge con chiarezza da tre pilastri: le testimonianze, una fotografia che lo immortalerebbe sulla scena e la sentenza di appello bis che ha già portato a due ergastoli. Sullo sfondo della strage, come per tutti gli attentati riconducibili all’era della “strategia della tensione”, si stagliano ancora imponenti ombre mai del tutto chiarite.
Era il 28 maggio 1974 quando una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti esplose in Piazza della Loggia, durante una manifestazione contro il terrorismo nero. Otto morti, 102 feriti, un’Italia ancora una volta colpita dalla violenza dell’eversione neofascista. Da allora, indagini e processi si sono susseguiti, portando nel tempo alla condanna all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. E ora Marco Toffaloni, il presunto esecutore dell’attentato, colui che avrebbe materialmente piazzato l’ordigno, rischia una condanna a 30 anni di galera. Dopo la strage, Toffaloni si trasferì in Svizzera, cambiò nome in Franco Maria Muller e ottenne la cittadinanza elvetica. Oggi non si è mai presentato in aula e, anche in caso di condanna, difficilmente sconterà la pena: per le autorità svizzere, infatti, il reato è ormai prescritto e non prevedono l’estradizione. Eppure, la Procura di Brescia non ha dubbi: giustizia deve essere fatta. L’accusa poggia su una serie di elementi ritenuti decisivi. Primo fra tutti, le dichiarazioni di Ombretta Giacomazzi – fidanzata di Silvio Ferrari, estremista di destra morto il 19 maggio 1974 a Brescia nell’esplosione di una bomba che trasportava sulla sua Vespa – che ha raccontato della presenza di Toffaloni in ambienti eversivi dell’epoca, e di Gianpaolo Stimamiglio, ex ordinovista, che dichiarò di aver ricevuto da lui una confessione implicita: «A Brescia c’ero anche io». In aula sono state citate anche altre testimonianze: una libraia veronese che riferì un’oscura ammissione dell’imputato su «una cosa grave» commessa in Italia, e un vicino di casa, che affermò di aver sentito il padre di Toffaloni ammettere che il figlio era coinvolto nella strage. Infine, c’è la fotografia scattata in Piazza della Loggia il giorno dell’attentato: secondo gli esperti, ritrarrebbe proprio Toffaloni tra la folla.
In questo lungo arco temporale, il lavoro degli inquirenti è sfociato in tre diversi processi: due con esito assolutorio, un altro finito nel 2017 con la condanna definitiva all’ergastolo dei membri veneti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Sono state accertate anche le responsabilità di Carlo Digilio (artificiere), Marcello Soffiati (commesso viaggiatore e latore dell’ordigno) e Ermanno Buzzi (basista). Un altro criminale neofascista, Vincenzo Vinciguerra – che per anni operò a stretto contatto con Maggi in Ordine Nuovo – nel 1985 ha messo a verbale davanti ai magistrati che proprio Maggi sarebbe stato inserito all’interno di un apparato occulto formato da civili e militari, legati da forti convinzioni anticomuniste e aderenti all’idea di un rafforzamento della NATO. La strage di Piazza della Loggia viene infatti inserita nel contesto della “strategia della tensione”, sfociata in quegli attentati che, dal 1969 al 1980, insanguinarono il Paese, vedendo un ruolo esecutivo dei gruppi neofascisti e, sullo sfondo, la partecipazione attiva di entità istituzionali a livello nazionale e internazionale, in nome di macroscopici interessi geopolitici. Quando si verificò l’eccidio di Brescia, il Paese veniva dallo storico risultato del referendum sul divorzio, vinto dai progressisti e simbolo plastico della prospettiva di un reale spostamento a sinistra dell’asse politico.
Molti sono i punti di non ritorno che hanno contraddistinto le indagini sulla strage. Tra questi, il lavaggio della scena del delitto dopo solo un’ora e mezza dall’esplosione; l’omicidio di Ermanno Buzzi, strangolato nella prigione di Novara nell’aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Bruti; la “bufala” di una fantomatica pista alternativa italo-cubana emersa da un’informativa del SID. Ma anche e soprattutto, come ricordato dall’allora giudice istruttore Gianpaolo Zorzi, «l’inqualificabile e sistematica condotta dei vertici dei Servizi Segreti» finalizzata a occultare all’autorità giudiziaria «l’esistenza delle veline, rivelatesi poi decisive, contenenti le informazioni in tempo reale della fonte “Tritone”, alias Maurizio Tramonte». In ultimo, non si può non fare menzione delle dichiarazioni rese da Ombretta Giacomazzi, fidanzata dell’ordinovista Ferrari morto nel maggio ’74, in merito alle indagini sull’attentato. Ancora terrorizzata per la sua incolumità, la donna ha in anni recenti rivelato al generale Massimo Giraudo di riunioni clandestine che avrebbero avuto luogo presso la stazione dei Carabinieri di Verona-Parona, tra elementi dell’Arma, ordinovisti e, verosimilmente, elementi del SID. Lei stessa avrebbe partecipato con Ferrari a due riunioni, identificando tra i presenti il Capitano Francesco Delfino, l’Appuntato Vittore Sandrini, alcuni neofascisti e, dopo un riconoscimento fotografico, il Colonnello Angelo Pignatelli, allora capo del SID di Verona. Dopo la morte di Ferrari, Giacomazzi avrebbe giurato di mantenere il silenzio davanti ai Carabinieri, tra cui Delfino, Pignatelli e Mario Mori (figura nota per essere stato processato e infine assolto al processo “Trattativa Stato-mafia”), che l’avrebbero incontrata nel carcere di Venezia nell’estate del 1974.
[di Stefano Baudino]
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