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PALESTINA 1936. LA GRANDE RIVOLTA ARABA E LE RADICI DEL CONFLITTO CONTRO ISRAELE
Per provare ad addentrarsi nella storia dello Stato d’Israele è necessaria la conoscenza di almeno due fattori principali, ossia le vicende e gli sconvolgimenti storici dello scorso secolo ed una panoramica sul mondo arabo-islamico e le sue categorie. Senza questi presupposti tale storia rimane, come spesso avviene, preda di qualsiasi avventurosa narrativa o sfacciata falsificazione. Chiunque ritenga che il conflitto mediorientale risalga al 1948, data di costituzione ufficiale dello Stato d’Israele, sbaglia o si accontenta, passivamente, delle opinioni rifilate da cattivi maestri. Un consistente numero di storici ha analizzato la questione partendo da origini ben più lontane, ma fino ad oggi mancava uno studio per il grande pubblico incentrato sull’anno chiave del 1936. Il libro di Oren Kessler, Palestine 1936. The Great Revolt and the Roots of the Middle East Conflict (Palestina 1936. La grande rivolta e le radici del conflitto in Medio Oriente), pubblicato da Rowman & Littlefield, nel 2023, colma tale lacuna. A poco tempo dalla pubblicazione questo testo è già una lettura essenziale nella saggistica storica sul Medio Oriente.
L’autore, pur trattando un tema singolarmente intricato, è riuscito a rendere questo studio leggibile quasi come un romanzo. La tempistica della pubblicazione, coincidente con i recenti eventi in Medio Oriente è, come confermato da Alex Kind, manager per le comunicazioni di Rowan international, “meramente casuale”, in quanto il libro era già stato accettato per la pubblicazione molto prima del proditorio attacco del 7 ottobre 2023.
Oren Kessler dimostra, con ampia documentazione, come il vero punto di svolta, seppur preceduto dalla costituzione di movimenti quali la Fratellanza musulmana, fondata da Hassan al-Banna nel 1928, siano quegli anni della rivolta araba che vanno da 1936 al 1939, ossia ben antecedenti alla fondazione dello Stato d’Israele (1948). È in questo periodo che viene a rafforzarsi l’aggressione araba contro gli ebrei nelle aree sotto mandato britannico e francese mentre, in Europa, trionfava l’ideologia antisemita del nazionalsocialismo il quale iniziò rapporti di cooperazione ed infiltrazione nel mondo arabo anche grazie a Mohammed Amin al-Husseini, il famigerato Gran mufti di Gerusalemme, presidente del Supremo consiglio islamico (1922-1937) ed uno dei leader della rivolta. Dal 1920 al 1929, al-Husseini fu corresponsabile di molte violenze, tra cui le rivolte di Nabi Musa (1920), gli assalti di Jaffa e Petah Tikva (1921), l’attacco a Safed, il massacro di Hebron ed i sanguinosi attentati contro gli ebrei della regione tra il 23 e il 29 agosto 1929. Durante la Seconda guerra mondiale, il mufti venne espulso dalla Palestina sotto mandato britannico e trascorse gran parte di questo periodo nella Germania nazista in cui ebbe rapporti con alti gerarchi, incontrò lo stesso Hitler nel 1941, collaborò con Adolf Eichmann e perorò l’arruolamento di musulmani nelle Waffen-SS seguendo, in prima persona, le operazioni di pulizia etnica della divisione Handschar nei Balcani. Questa, in breve, è solo una parte dell’attività criminale che si protrasse anche oltre la guerra e per la quale questo personaggio non venne mai portato in giudizio.
Il libro di Kessler mostra, seppur indirettamente, come alla radice dell’ostilità da parte araba vi sia anche una fondamentale incapacità d’intendere un modello di Stato egalitario per gruppi con orientamenti religiosi diversi com’era, peraltro, premesso nella Dichiarazione Balfour (1917). Chaim Weizmann, il biochimico che divenne poi primo Presidente dello Stato d’Israele, carica dapprima offerta ad Albert Einstein, espose, di fronte alla Palestine Royal Commission (oggi nota come “Commissione Peel”, dal nome del presidente Lord Peel), istituita per indagare le cause del conflitto, la teoresi democratica sulla possibilità di formare uno Stato con un “sistema di parità”, ossia pari rappresentanza politica per tutti a prescindere dall’etnia di appartenenza (p.81). La proposta di Weizmann, anche a causa del clima determinato dalla rivolta, venne però rigettata già in seno alla Commissione.
Nel merito è rilevante, tra le altre, anche la figura del libanese George Habib Antonius (1891-1942) il quale pubblicò, nel 1938, Il risveglio arabo: La storia del movimento nazionale arabo, con cui retrodatava, al 1847, il sorgere di un ipotetico movimento arabo nazionale in opposizione alla dominazione ottomana in Siria. Tanto nella sua testimonianza di fronte alla Commissione Peel, quanto nel testo, Antonius elabora, astutamente, alcuni dei punti chiave delle narrative che troveranno poi posto nell’ideologia costruita ad arte contro Israele ed oggi, purtroppo, dominante. Secondo Antonius “porre il peso maggiore del fardello [dell’immigrazione ebraica dovuta alla fuga dal nazismo] sulla Palestina araba è una misera evasione del dovere che incombe su tutto il mondo civilizzato. (…) Nessun codice morale può giustificare la persecuzione di un popolo nel tentativo di alleviare la persecuzione di un altro. La cura per l’espulsione degli ebrei dalla Germania non va cercata nell’espulsione degli arabi dalla loro patria; e il sollievo della sofferenza degli ebrei non può essere ottenuto a costo di infliggere una corrispondente sofferenza ad una popolazione innocente e pacifica.” Frasi in cui si equipara l’emigrazione alla persecuzione vengono messe su carta da Antonius nel 1938, ossia nel mezzo della rivolta araba che stava provocando violenze e morti tra ebrei e soldati inglesi e questo ben dieci anni prima della fondazione dello Stato d’Israele e della guerra di aggressione scatenata dagli Stati arabi dominanti nella zona. Antonius, inoltre, parla della Palestina sotto mandato come se questa fosse abitata unicamente da una popolazione araba “innocente e pacifica”, anche se, proprio in quel momento, la guerriglia armata insanguinava le strade. Sembra familiare come discorso? Da osservare, inoltre, come nessuno degli Stati arabi, i quali ottennero anch’essi la loro indipendenza nello stesso periodo (Siria, Libano e Giordania nel 1946), subirono alcun attacco alla loro nascita. Il testo di Antonius, se considerato nella sua cornice storica, si rivela come un tentativo di legittimazione politica della rivolta e delle violenze, non ancora placate mentre egli scriveva, invertendo il ruolo di aggrediti ed aggressori. Questo copione continuerà a ripetersi anche in altre aree geografiche e per altre stragi sovvertendo, costantemente, i rapporti di causa ed effetto, fino a giungere, con un salto di un secolo, al paradossale vittimismo degli aggressori del 7 ottobre che trova ascolto nelle orecchie di certuni facilmente influenzabili anche in virtù della cappa di disinformazione creata sugli accadimenti storici. Quello che infatti Antonius scrive, cercando di dare una parvenza di legittimità alle violenze che imperversavano, risuona, ancora un secolo dopo, nelle iperboli di coloro i quali si pongono, sempre e comunque, dalla parte di Hamas, persino quando commettono degli stupri di gruppo o strangolano dei bambini tenuti in ostaggio!
Il testo di Antonius rappresenta, in tal senso, una di quelle tante tappe nella costruzione di narrative per la legittimazione della violenza e la falsificazione della storia a detrimento del popolo ebraico o d’Israele. Dopo l’attacco degli Stati arabi confinanti, nel 1948, il cui intento dichiarato era quello di distruggere l’appena formato Stato d’Israele, ma il cui esito fu la sconfitta militare, seppur non quella politica, ulteriori narrative sono state create ad hoc e le pretese degli aggressori sono state politicamente invertite in rivendicazioni sulla base di asserzioni false e fantasiose come il mito della nakba. Antonius, un personaggio ambiguo proveniente, in apparenza o formalmente, da una famiglia cristiana greco-ortodossa libanese (così come Edward Wadie Saïd (1935-2003) che si definiva, come se questo potesse avere un senso, un “cristiano avvolto in una cultura musulmana. A christian wrapped in a Muslim culture”), dopo il diploma in ingegneria meccanica al King’s College di Cambridge (1910-1913) entrò a far parte del Dipartimento dell’istruzione della neonata Amministrazione britannica della Palestina e la sua testimonianza è uno di quegli esempi che dimostrano la difficoltà (pp. 85 sgg.) di venire a patti con una mentalità tribale la quale non intende il compromesso politico o la necessità di una nazione con uguali diritti per tutti. Il nazionalismo arabo è, sostanzialmente, un’invenzione della Gran Bretagna e servì come strumento politico contro l’Impero ottomano – vedi il mito di Lawrence d’Arabia “paladino del nazionalismo arabo”. È a Cambridge che Antonius acquisisce il concetto di “nazionalismo” che verrà poi utilizzato, durante la Prima guerra mondiale, per fomentare le rivolte ed indebolire l’Impero ottomano schierato con le potenze centrali. Il linguaggio di Antonius presenta invece il territorio mediorientale, fino al termine della Prima guerra mondiale sotto il controllo dell’Impero ottomano, come una terra araba su cui le potenze europee volevano far pesare la soluzione di un problema da loro creato, ossia la persecuzione ebraica portata avanti, invece, dagli alleati e sodali del mufti, non da altri. Un’altra delle curiose inversioni di questa vicenda.
Il libro di Kessler ricorda anche come la proposta dei due Stati emerga, all’interno della Commissione Peel, da Reginald Coupland, docente di storia coloniale all’università di Oxford – definito “un piccolo professore intrigante” dal membro di commissione ed ambasciatore Sir Horace Rumbold – il quale si era occupato di piani di partizione per Irlanda e India e riteneva di poter applicale tali modelli coloniali come soluzione di qualunque situazione, questa sì una mentalità imperialista. In effetti, è proprio all’interno della Commissione Peel che si determina quel passaggio d’intenti dalla proposta Balfour di uno Stato per tutti a quella della partizione. La vicenda diventa ancora più singolare alla comparsa dell’esperto d’irrigazione (Irrigation Adviser) Douglas Gordon Harris, nominato il 25 gennaio 1936 quale Official Member of the Executive Council of Palestine, il quale, seguendo la tradizione delle potenze occidentali, “con un pennarello verde su una mappa divide in due la Palestina mandataria.” Il modello divisorio creato dalla politica coloniale britannica viene però oggi falsamente attribuito ai Sionisti i quali lo subivano, insieme alle angherie dei loro vicini arabi, e provarono, come si legge dagli interventi di Chaim Weizmann, ad offrire ben altra soluzione tesa alla costituzione di uno Stato con un “sistema di parità” politico-giuridica per tutti: egalitarismo contro fanatismo. La rivolta araba tra il 1936 ed il ’39 è quel momento chiave in cui, accompagnata da un efferato bagno di sangue, emerse la chiara volontà, da parte delle élite indirizzate dal Gran mufti ed ispirate dall’ideologia dei Fratelli musulmani, di ottenere il controllo dell’intero territorio sotto il mandato britannico senza lasciare alcun posto ad altri. Quest’ideologia è la stessa sintetizzata, oggi, nel grido “from the river to the sea” udibile, purtroppo, nelle strade dell’Occidente, ossia la chiamata all’annientamento dello Stato d’Israele. Quando la storia viene inquinata dall’ideologia, com’è il caso in questo traumatico momento storico, e la ragione serve quanto una forchetta per la minestra, il delirio sfonda tutte le porte, aprendo la strada a mali ulteriori e violenze sempre più grandi ed efferate. Per questo è essenziale che, seppur nascosti tra gli affollati scaffali delle librerie, vi siano testi da leggere come quello di Oren Kessler, Palestine 1936. The Great Revolt and the Roots of the Middle East Conflict (Rowman & Littlefield, 2003, pp. 317).
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