migliorare se stessi, la regola per vincere

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito




Julio Velasco – Ansa

Lo sport è la metafora della vita? Esistono regole di campo applicabili ad altre professioni? In sostanza: c’è una ricetta per essere vincenti? Non può esserci un interlocutore migliore di lui per ottenere una risposta. Metti quindi a sorpresa una sera con Julio Velasco. A sorpresa perché l’occasione capita in un contesto alieno, all’Autodromo di Monza durante un evento dove Audi presenta la sua nuova Q5, ma dove l’allenatore che ha vinto l’estate scorsa l’oro olimpico con la nazionale femminile di pallavolo, e che è stato il leggendario coach della “generazione di fenomeni”, la storica nazionale italiana maschile che negli anni ’90 ha vinto tre Mondiali consecutivi conquistando il titolo di “migliore squadra del secolo”, ha raccontato il suo concetto di “formula vincente”.

Pensare positivo e proporre soluzioni

«Noi – spiega Velasco – di solito siamo chiamati ad allenare una squadra lì dove le cose sono andate male, perché se fossero andate bene avrebbero tenuto l’allenatore che avevano prima. Cosa fare quando si trova una situazione negativa? La prima è pensare positivo, perché non serve fermarsi a studiare tutte le cose che non vanno. Si perde tempo. Soprattutto se alleni una nazionale, e se si comincia a pensare che il problema sia più grande. Tipo che non facciamo abbastanza educazione fisica nelle scuole come in altri Paesi. Che possiamo fare di fronte a quello? Non è che possiamo presentare un progetto di legge, e aspettare che lo votino in Parlamento. Quindi se il problema non lo possiamo risolvere perché non è nelle nostre competenze, per me il problema non esiste».

Il potere della convinzione, l’arma in più

«Ai giocatori invece io chiedo proposte. E poi: io sono ottimista e voglio ottimismo. Non conosco allenatori che vincono e sono pessimisti. Perché il pessimismo si trasmette, e impedisce di cambiare. La parola chiave è: fiducia. Perché le soluzioni esistono sempre, basta solo trovarle. La prima volta che ho allenato in Italia l’ho fatto a Jesi, in A2. Era un piccolo club, ma quando arrivai dissi: voglio allenare la squadra almeno tre ore ogni giorno. I dirigenti mi guardarono come se fossi un pazzo. Tre ore? Impossibile. I giocatori studiano e lavorano, non hanno quel tempo. Chiamai i giocatori, chiesi loro di farlo. E loro decisero di farlo. Ero riuscito a convincerli: questo vuol dire lavorare con le persone, ed è la cosa più difficile. Perché se le persone non le convinci, puoi sapere mille cose, ma vali zero. Quando giochi conti per quello che fai, ma quando alleni o dirigi, conti per quello che riesci a far fare agli altri».

La mentalità vincente? Si impara solo vincendo

«Spesso mi chiedono: come si fa ad avere la mentalità vincente? E sono arrivato a una conclusione: per avere mentalità vincente, bisogna vincere. Io non conosco squadre che hanno mentalità vincente e che perdono molto. Chi dice: hanno perso perché non hanno la mentalità giusta, dice una cosa sbagliata. Penso a cosa ho fatto nei primi anni, quando presi in mano l’Italia del volley che vincente non lo era. Presi un giocatore alla volta, e gli chiesi: in cosa ti senti bravo? Perché nessun giocatore ha tutto, anche il migliore ha alcune cose in cui non eccelle. Maradona voleva giocare molto con la palla, ma aveva bisogno di uno che la recuperasse per lui. E lo stesso Totti o Platini, ma vale per tutti. Unire giocatori con caratteristiche diverse che insieme sono molto forti: questa è una squadra vincente, quella dove i ruoli sono complementari. Quindi migliorare quello che già si fa bene è il primo traguardo, e poi trovare l’alchimia con i compagni che fanno bene altre cose».

Correggere i difetti, basta anche uno solo

«Per seconda cosa scelgo sempre un difetto o un limite che ogni giocatore ha, e non più di uno alla volta, per convincerlo a mettere tutta l’energia per cambiare quella cosa. Perché cambiare vuol dire fare un salto di qualità. Provo a spiegarlo con un esempio. Quando ero con la nazionale italiana il primo anno, nel 1989, dissi ai giocatori: tempo due anni dobbiamo essere tra le prime quattro squadre del mondo. E in quattro anni dobbiamo arrivare in finale al Mondiale. Molti pensarono che stessi scherzando. Perché allora sembrava una cosa impossibile. Ma dissi anche che per diventare la migliore squadra del mondo, ognuno di loro doveva diventare tra i migliori del mondo nel suo ruolo. Dopo tre mesi presi Andrea Zorzi, che era l’opposto, quindi l’attaccante principale della squadra. Lo portai al bar e gli dissi: per me puoi essere il miglior giocatore del mondo. Ma per diventarlo, in cosa credi che dovresti migliorare? Lui mi rispose: devo migliorare la battuta, il muro, la difesa… Praticamente tutto. Lo convinsi che non serviva, e che se ogni atleta migliora una sola cosa di sè, la squadra dove gioca ha migliorato 7 cose. E se migliora 7 cose, in poco tempo è un’altra squadra. Ha fatto il salto. Poi ognuno prenderà un’altra priorità da migliorare, e di nuovo si crea un meccanismo vincente. E contro chi dobbiamo vincere? Contro di noi, contro i nostri limiti, contro un difetto, uno alla volta. Se ogni giocatore migliora se stesso, magari la squadra continua ancora a perdere, ma meno».

Le difficoltà sono come gli anticorpi

«La seconda battaglia la dobbiamo vincere contro le difficoltà. Ma le difficoltà ci danno gli anticorpi contro le difficoltà. Il primo anno in nazionale, chiesi al team manager: chiama i paesi più forti, la Bulgaria, la Russia. Vogliamo andare a giocare lì. Perché è difficile batterli. E perché le trasferte sono pesanti, specie se non ci portiamo da mangiare. Non è che portarsi gli spaghetti da casa sia indispensabile per giocare bene. Però facevo scelte fastidiose. Cosa dà più fastidio a un italiano che mangiar male? Dissi: noi andiamo e mangiamo quello che troviamo. Utilizzare il disagio per diventare più forti: lo faceva anche il mio collega brasiliano, che obbligava la squadra ad allenarsi alle 7 del mattino. Diceva: se arrivano felici alle 7 in campo, vuol dire che hanno voglia di vincere. Infatti erano i più forti». «Ricordo che quando l’Italia del calcio vinse l’Europeo con Mancini in panchina, molti giocatori dissero che il segreto di quella squadra era l’unità del gruppo. Non ero e non sono d’accordo. Con un gruppo unito si va a mangiare la pizza, ma se giochi male in campo perdi comunque. La chiave è un’altra: il gioco di squadra. Non è indispensabile essere amici o andare d’accordo, e questo vale nello sport come in un’azienda. Certo, rende tutto più facile. Ma se Maria attacca a rete e le altre non la aiutano facendo copertura, il punto si perde. Anche se Maria e le altre sono un bel gruppo. Perché aiutarsi nello sport è parte del gioco. E non è che ci si aiuta o meno perché si va d’accordo. Se non facciamo tutti pressing nel calcio giochiamo male; se non facciamo il blocco nel basket giochiamo male. Non parliamo poi del rugby, dove ci sono giocatori che si sfiancano e prendono tutti i colpi per permettere agli altri di andare in meta. E non prendono i colpi perché sono amici degli altri, ma perché il gioco è così. Rido quando sento dire che si vince quando l’io diventa noi. Il punto non è che sparisca l’io perché ci sia il noi. Ma che i diversi io funzionino bene come un noi mantenendo la loro identità».

Gioco di quadra, decisivo perché conviene

«Ho sempre pensato che nello sport sia giusto mantenere anche un po’ di sano egoismo, di aspirazioni personali, che non sempre coincidono esattamente con quelle generali. Ma ora, mentre sono in questa squadra, conviene a tutti fare gioco di squadra. Perché se la squadra vince, tutti stanno meglio, dalle stelle all’ultimo giocatore, dal presidente al magazziniere. E quando si perde, perdono tutti. Farne un discorso di convenienza è un po’ cinico, ma questa è la realtà. Almeno è quello che io credo che serva nello sport. E forse anche nella vita».





Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link