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«La più stupida guerra commerciale della storia». Così il Wall Street Journal ha definito la politica dei dazi di Donald Trump. Mentre il premio Nobel per l’economia Paul Krugman ha scritto che i nuovi dazi americani sono «piccoli, brutti e stupidi».
Per il momento, il presidente degli Stati Uniti ha deciso per la seconda volta di sospendere la maggior parte dei dazi a Messico e Canada fino al 2 aprile, dopo aver annunciato una deroga di un mese sui dazi per le case automobilistiche. Quella che il Wsj ha definito come il «trionfo dell’ideologia sul buon senso» è stata messa in pausa. Ma Trump ha già detto che i dazi potrebbero aumentare e che c’è un solo modo per le aziende di evitare costi aggiuntivi: tornare a produrre negli Stati Uniti.
Blue collar Cosa farà Trump allo scadere del mese di pausa e se i dazi entreranno davvero in vigore non si sa. Ma l’obiettivo dichiarato del presidente americano sarebbe quello di mettere fine alla stagnazione nella produzione manifatturiera, ricreando i posti di lavoro persi e rivendicati dagli operai che lo sostengono.
Il potente sindacato americano UAW, United Auto Workers, che conta un milione di lavoratori del settore dell’auto, ha lodato la politica dei dazi di Trump su Canada, Messico e Cina. Gli iscritti allo UAW hanno sempre votato per i Democratici, ma molti si sono convertiti a Trump, convinti dallo slogan «America First». La loro idea è che i dazi servano ad «annullare le ingiustizie degli accordi commerciali anti-lavoratori», hanno scritto in un comunicato, «per porre fine al disastro del libero scambio, che è caduto come una bomba sulla classe operaia».
Come spiega Axios, l’UAW spera che i dazi spingano le case automobilistiche americane a riportare posti di lavoro negli Stati Uniti. E il presidente Shawn Fain, che aveva inizialmente sostenuto Kamala Harris, ha fatto sapere di essere in trattative con la Casa Bianca per far sì che i dazi sulle auto vadano solo «a vantaggio della classe operaia».
In teoria, ha scritto Dustin Guastella sul Guardian, i dazi potrebbero anche essere una politica economica che crea posti di lavoro. Ma non come li ha fatti Trump. Così come sono, è del tutto improbabile che i dazi di Trump possano davvero portare benefici all’economia americana. Anzi. Applicare i dazi in modo così ampio, senza una strategia industriale supplementare, rischia di far aumentare i prezzi, facendo solo un grande favore alle grandi aziende. Senza nessuna ricaduta automatica su posti di lavoro e crescita.
I dazi di Biden Durante la sua amministrazione, l’ex presidente Joe Biden ha imposto un dazio del 100 per cento sulle auto elettriche cinesi, raddoppiandone il prezzo. L’obiettivo era rendere le auto cinesi, vendute a prezzi molto bassi, più costose rispetto a quelle fatte negli Stati Uniti, puntando così a dare tempo ai produttori statunitensi di diventare più competitivi. Produrre auto elettriche in casa era il grande sogno di Biden, che infatti nel frattempo ha investito centinaia di miliardi di dollari per incentivare lo sviluppo e la produzione nazionale di veicoli elettrici, semiconduttori e batterie.
L’esempio dei veicoli elettrici è utile perché mostra la differenza tra le politiche sui dazi di Biden e quelle di Trump.
I dazi di Trump Trump non si è concentrato tanto sull’aumento dei dazi su specifici beni importati, ma su tutti i beni provenienti da determinati Paesi. Messico e Canada sono stati colpiti da dazi generali del 25 per cento su tutte le merci; quelli per la Cina sono stati raddoppiati al 20 per cento.
Ma aumentare i prezzi di tutti i prodotti provenienti da questi Paesi non aiuta a sviluppare in automatico una particolare linea di produzione negli Stati Uniti. Dazi come questi sono sia troppo generali sia troppo bassi per avere un impatto sull’economia americana – spiega Guastella. Un dazio del 20 per cento su tutti i prodotti cinesi potrebbe rendere più costoso per gli americani continuare a comprare certi articoli dalla Cina, ok. Ma niente incoraggia gli americani ad acquistare prodotti Made in Usa. Gli americani potrebbero benissimo trovare un fornitore vietnamita per evitare il dazio, continuando a non comprare prodotti nazionali. Inoltre, è possibile che alcuni produttori cinesi decidano semplicemente di assorbire i costi aggiuntivi dei dazi, vendendo i loro beni con margini di profitto più bassi. Oppure, altrettanto probabile, è possibile che cercheranno di evitare i dazi facendo assemblare i loro prodotti in Paesi vicini prima di inviarli negli Stati Uniti.
I dazi di Trump, focalizzati sui Paesi e non sui prodotti, «sembrano più uno strumento geopolitico che economico», scrive Guastella. E «non hanno molto senso se l’obiettivo è riportare le fabbriche a casa».
I dazi su acciaio e alluminio di Trump potrebbero invece essere più in linea con l’obiettivo. In teoria, rendendo tutti gli acciai importati (indipendentemente da quale Paese provengano) soggetti allo stesso dazio, si potrebbe riuscire a rendere l’acciaio statunitense comparativamente più economico per i compratori nazionali.
Ma anche in questo caso non è automatico. Non bastano i dazi a rendere l’acciaio statunitense migliore, né a rendere più efficiente la produzione. Così come non bastano a creare nuovi posti di lavoro o ad aumentare i salari degli operai.
Le tariffe sull’acciaio e sull’alluminio, così come vengono annunciate, significheranno invece solo costi più elevati per le case automobilistiche e i produttori di elettrodomestici americani che utilizzano quei metalli. Senza un aiuto del governo per sviluppare una nuova produzione – incoraggiando l’adozione delle tecniche più moderne, costruendo attivamente una nuova domanda di acciaio americano o fornendo garanzie sociali per i lavoratori – i dazi da soli rischiano di proteggere un’industria malata senza alcun beneficio a lungo termine.
Il problema, poi, è anche il tempo degli annunci di Trump. Le case automobilistiche non possono certo tornare a produrre la componentistica negli Stati Uniti nel giro di un mese, come chiede il presidente. «Non puoi semplicemente dire alla General Motors: “È troppo costoso acquistare fari dalla Cina”», ha spiegato un consulente aziendale al Washington Post. «Nessuno produce fari negli Stati Uniti. Quindi quello che stai facendo è aggiungere costi senza dare il tempo per un adeguamento».
Come potrebbe essere invece un programma di dazi orientato al lavoro?
«Servirebbe combinare i dazi con grandi investimenti nelle infrastrutture per aiutare a indirizzare l’industria e il Paese verso una migliore salute economica», risponde Guastella sul Guardian. In cambio, però, le aziende siderurgiche dovrebbero offrire salari e benefici ai lavoratori. I nuovi impianti siderurgici dovrebbero essere sostenibili a livello ambientale e costruiti in luoghi che hanno bisogno di posti di lavoro, magari nelle stesse aree che sono state colpite dalla deindustrializzazione.
Ma, secondo molti economisti, anche se Trump riuscisse ad attirare in casa le aziende, è improbabile che possa riconquistare i quasi cinque milioni di posti di lavoro nelle fabbriche scomparsi dalla fine degli anni Novanta. Nel frattempo, l’automazione è esplosa, le competenze e i salari degli operai non sono più gli stessi di trent’anni fa. La politica commerciale di Trump sta cercando di ricreare un’economia (e uno stile di vita) che in realtà non esiste negli Stati Uniti da decenni.
Oggi solo l’8 percento dei lavoratori americani oggi è impiegato in fabbrica. L’occupazione manifatturiera ha raggiunto il picco negli Stati Uniti nell’estate del 1979, con 19,5 milioni di posti di lavoro. Nei successivi vent’anni, circa 2 milioni di questi sono scomparsi, poiché l’automazione consentiva a meno lavoratori di produrre più beni. Poi, con l’ascesa economica della Cina e l’ingresso nel sistema commerciale globale, l’occupazione manifatturiera americana è crollata di quasi 6 milioni di posti di lavoro tra il 1998 e il 2010.
Dopo la firma del Nafta, l’accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, decine di migliaia di fabbriche hanno chiuso negli Stati Uniti. E questo da solo potrebbe spiegare gran parte della rivolta populista contro la globalizzazione. Che ha portato fino a Trump. Tanto che anche i sindacati ora appoggiano i suoi dazi, sperando di recuperare i posti di lavoro persi.
Ma anche se Trump riuscisse mai nell’impresa (cosa improbabile), i suoi piani di espulsioni di massa dei migranti renderebbero più difficile trovare nuovi lavoratori da occupare in fabbrica, visto che l’economia già opera quasi in un regime di piena occupazione.
Il punto è che i populisti partoriscono politiche «piccole, brutte e stupide», appunto.
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