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Parte prima. Celebrare una battaglia? – Il 24 febbraio di quest’anno, nei pressi di Pavia, si è tenuta una rievocazione – con più di 500 figuranti venuti da tutta Europa (!?) – della sanguinosa battaglia combattuta cinquecento anni fa fra gli Spagnoli di Carlo V e i Francesi condotti personalmente dall’imperatore Francesco I, che stava per vincere ma poi commise errori di presunzione e venne sconfitto (venne fatto prigioniero, portato a Madrid e liberato solo dopo il pagamento di un cospicuo riscatto e la perdita di molti possedimenti).
Una delle più di 10.600 battaglie (a partire dal 2500 a.C.) riportate nella mappa di Wikipedia (foto sotto).
La rievocazione fa parte di un percorso “celebrativo” (!?) che durerà diversi mesi.
Ma che cosa c’è da celebrare? Che si sia trattato di una importante battaglia sul piano militare e politico è un fatto, certificato anche dai numerosi dipinti che la ricordano in tutta Europa. Ma che sia oggetto di “celebrazioni” in Italia, visto tra l’altro che segnò il passaggio della Lombardia da una dominazione all’altra e, addirittura, dell’emissione di un francobollo italiano francamente mi ha lasciato basito.
Certo, nella storia è più facile ricordare le battaglie: chi non ricorda date e battaglia studiate a scuola (spesso trascurando le vittime)? Più difficile è ricordare i trattati di pace, che mal si prestano a rievocazioni, dipinti e francobolli. Ma questo non collabora forse a rinsaldare quella sempre latente vocazione guerrafondaia, che oggi sta ri-emergendo in modo dirompente in quell’Europa che oggi si sente improvvisamente orfana degli US?
In tutto questo fervore bellico, pochi hanno ricordato Jacques, signore de La Palice (piccolo borgo francese), che morì a seguito della battaglia di Pavia, ucciso a sangue freddo, dopo essersi arreso, da uno spagnolo che lo contendeva a un altro per farne oggetto di riscatto.
Comandante di valore, certo ignorava che il suo nome sarebbe divenuto sinonimo di ovvietà. I suoi uomini – si dice – gli dedicarono un epitaffio: “Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il ferait encore envie”, ovvero “Qui giace il Signor de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia”. In seguito la f di “ferait” venne letta come una s, e “envie” come “en vie”: “se non fosse morto sarebbe ancora in vita” (sic!). Ecco fatto il pasticcio, completato più tardi da un accademico di Francia, poco rispettoso e poco impegnato, che ne fece addirittura una canzoncina burlesca, aggiungendo varie strofe fra cui quella più celebre recita “….un quarto d’ora prima della morte era ancora in vita”.
Anni fa, qualcuno propose addirittura di dedicargli un monumento a Pavia; forse il monumento andrebbe dedicato a tutti i morti di quella battaglia, ricordando anche a celebranti, figuranti e spettatori che anche tutti coloro che sono caduti in battaglia (o sotto i bombardamenti) “un quarto d’ora prima di morire erano ancora in vita”.
Parte seconda. Il riarmo europeo: che cosa è successo? – C’è qualcosa di difficile da capire – e di inquietante – in questa corsa al riarmo e soprattutto nella velocità in cui l’Europa sta procedendo in questi giorni, scavalcando procedure, utilizzando strumenti di emergenza che non si erano usati in precedenza (a proposito, il famoso MES?).
Che cosa è successo che cosa ha determinato l’allarme e la fretta? In realtà l’unica – sia pure importante – svolta sono state le decisioni di Trump in merito ai dazi doganali ma, soprattutto, riguardo alla riduzione del supporto militare all’Ucraina; molto probabilmente il classico trappolone per indurre gli europei a spendere di più per gli armamenti – da comprare in larga parte in US.
Ma il nemico non è diventato Trump e gli US; è diventato la Russia che, pur non avendo modificato di un millimetro le sue posizioni diplomatiche e militari, è stata dipinta come il pericolo mortale e imminente da vari capi di stato (si legga il discorso di Macron alla nazione francese) e da quella specie amministrazione di condominio che è la Commissione Europea.
Una semplice riflessione porterebbe una persona onesta a osservare che, in termini di guerra convenzionale, la Russia si trova impantanata da tre anni in Ucraina, sia pure quest’ultima supportata dalla NATO, e non avrebbe la forza – oltre non averne motivo – per aggredire nessuno.
Certo, sul piano nucleare la situazione è diversa: ma non sarebbero i miliardi di cui sopra a pareggiare la situazione, nemmeno se si pensasse sotto sotto di potenziare la capacità nucleare di quelle nazioni che già la detengono, Francia e Gran Bretagna che, forse non a caso, sono da settimane le più attive (ma la Gran Bretagna, tradizionale alleata degli US, non era uscita dall’Unione Europea?) e che sono sempre state in prima linea nello scatenare guerre ….
Niente di nuovo per quanto riguarda le parole; molto per quanto riguarda l’economia, che rischia di vedere sottratti – con procedure autoritarie e di emergenza – centinaia di miliardi di euro alla spesa sociale a favore di quella militare, con buona pace dell’Europa green, ecc. E i miliardi in questione, verranno forse spesi in Europa?
Incutere paura per governare. E’ noto che uno degli strumenti più efficaci per la gestione del potere da parte dei governi autoritari è la diffusione della paura. Ecco, questa è l’operazione che i governi europei stanno facendo in questi giorni per far passare questa gigantesca “variazione di bilancio”. Trump e gli US si allontanano? La minaccia è la Russia: siamo tutti estoni, o no?
Parte terza, i corvi – Che cosa c’entrano qui? C’entrano, c’entrano. Giorni fa è (ri)passato in tv il film “Jeremiah Johnson” (1972), di Sidney Pollack, con Robert Redford, altrimenti noto con il titolo “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”. Traduzione interpretativa, come sempre avviene per i titoli italiani; giusto per aggiungere un po’ di violenza e di sangue (rosso? la tribù di cui si parla nel film era quella dei Corvi e basta; il loro capo si chiamava “Mano che segna rosso”).
Erano gli anni in cui vennero girati “Soldato blu” e “Il piccolo grande uomo”: anni in cui qualcuno osava rompere il tabù dell’indiano cattivo e proponeva l’indicibile verità dello sterminio. Forse era solo un modo di placare la cattiva coscienza collettiva, o forse erano sinceri tentativi di avviare una riflessione.
Girato splendidamente, con il minimo possibile di dialoghi, parla di un periodo in cui il West non era ancora stato del tutto conquistato e i nativi non ancora uccisi o deportati. Un periodo nel quale singoli statunitensi commerciavano con i nativi anche se – ovviamente – a volte si scontravano; nativi che sapevano nutrirsi senza uccidere un animale al giorno.
Jeremiah, che già si è fatto carico di un bambino muto, fra mille dubbi e sorprese prende in moglie una donna nativa, di una tribù cristianizzata (!) il cui capo parla francese (!) e si stabilisce in pace nelle montagne. Un giorno una carovana di pellegrini (!?) migranti si blocca sotto la neve e lo squadrone di soccorso, con tanto di religioso al seguito, gli chiede di guidarli per trovare la strada. Jeremiah esita perché dovrebbero attraversare ilcimitero dei Corvi, poi subisce le pressioni e accetta. Per vendetta i Corvi gli uccidono moglie e bambino: lui ritrova l’indole US e scatena la rappresaglia. Meravigliosa la scena del nativo che, sentendosi perduto, intona un canto che stupisce Jeremiah, il quale lo lascia andare. Alla fine vede da lontano “Mano che segna rosso”, prepara il fucile ma, inaspettatamente, dopo qualche esitazione il Corvo gli fa un saluto di pace, cui Jeremiah risponde. Pare che il regista avesse girato tre scene finali, due con la morte di ciascuno dei contendenti, e poi scelse la terza, pur non completamente soddisfatto.
E’ un fatto che la scena finale rappresenta quello che molti si augurano, nel film come nella realtà attuale; la pace, o almeno la tregua, fra contendenti irriducibili che si odiano.
Esattamente il contrario di quello che i governanti europei stanno apparecchiando, proprio mentre quella scena rischia di andare in onda senza di loro.
Massimiliano Stucchi
Sismologo, già dirigente di ricerca e direttore della Sezione di Milano dell’INGV
Fondatore e curatore del blog terremotiegrandirischi.com
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