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La fine dell’inflazione, la strategia dei dazi di Trump e la probabile corsa al riarmo (nazionale) dell’Europa portano il governo a dover prendere le prime scelte scomode, dopo svariati anni di abbondanza, dovuti più alla positiva congiuntura che alla politica
Il percorso di consolidamento dei conti pubblici deciso dal governo italiano già nel 2023 e confermato nel 2024, dopo l’approvazione delle nuove regole fiscali europee, è ingente.
L’aggiustamento descritto nel Piano strutturale di bilancio (Psb) prevede una crescita della “spesa netta” inferiore o uguale a quella dei prezzi praticamente tutti gli anni, con una traiettoria quindi decrescente in termini reali sino al 2029, a meno di non aumentare le imposte in misura corrispondente a eventuali maggiori spese.
L’obiettivo è contenere il deficit
Il deficit, cioè la differenza tra le entrate e le uscite, secondo il Piano, scenderebbe all’1,8 per cento del Pil alla fine del 2029 partendo dal 7,2 per cento del 2023 (un aggiustamento di 5,4 punti di Pil) e il saldo primario passerebbe da un deficit di meno 3,6 per cento nel 2023 a un surplus del 2,4 nel 2029 (6 punti di Pil). Finora le cose sono andate bene. Anzi, meglio di quanto programmato dal governo e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
Sulla base dei recenti risultati, i dati del 2024 indicano un deficit al 3,4 per cento. Un miglioramento importante (deficit più che dimezzato in un anno), anche in una prospettiva storica, prodottosi senza esplicite manovre di correzione dei conti di particolare entità.
L’apparente contraddizione fra questi risultati rispecchia in buona misura l’esaurimento delle misure di carattere temporaneo, introdotte per contrastare le emergenze Covid e la crisi energetica, dai governi precedenti: sui conti del 2023 il Superbonus e le misure contro il caro-energia pesavano per più di 100 miliardi di euro. Un grosso contributo all’aggiustamento dei conti è derivato poi dall’inflazione.
Il fiscal drag ha contribuito per quasi 26 miliardi alla crescita delle entrate (con conseguente aumento della pressione fiscale); la parziale deindicizzazione delle pensioni porta a riduzioni delle spese per 6 miliardi all’anno (e a non banali perdite di reddito reale per le pensioni superiori a cinque volte il minimo di 526 euro mensili).
Molte spese sono poi state mantenute costanti in termini nominali o aumentate meno dell’inflazione e, quindi, si sono ridotte in termini reali e in rapporto al Pil nominale. Nel caso dei contratti dei dipendenti pubblici, la distanza fra gli aumenti erogati e l’inflazione arriva a 10 punti percentuali: una manovra “occulta” che migliora i conti di 20 miliardi quest’anno, e nei prossimi.
L’aggiustamento è stato, tra l’altro, meno forte di quanto avrebbe potuto essere perché gli spazi fiscali creati dall’inflazione hanno permesso alcune politiche di alleggerimento della stretta dei conti (cuneo fiscale, estensione della flat tax sulle partite Iva, eccetera) e perché la spesa per investimenti finanziata dalla componente prestiti del Next Generation Eu, che in Italia ha preso le sembianze del Pnrr, è stata importante (anche se forse un po’ inferiore ai piani).
In definitiva, la prima fase dell’aggiustamento dei conti è stata facile: a rimettere i saldi su un percorso di discesa ci hanno pensato l’uscita dall’emergenza e l’inflazione.
Scenario cupo senza inflazione
Il difficile viene però adesso, perché l’inflazione è sotto il due per cento e la crescita reale è di pochi decimi e potrebbe anche essere nulla o lievemente negativa se dovesse realizzarsi lo scenario di guerra commerciale innescata da Trump, con le inevitabili reazioni europee.
Se si torna a crescere dello “zero virgola”, con un costo medio del debito che si avvicina o supera il tre per cento, siamo di nuovo in una situazione in cui la stabilizzazione del debito è più difficile: se il tasso di interesse nominale è maggiore del tasso di crescita del Pil nominale, l’effetto “palla di neve” sul debito pubblico si rimette in moto.
Il governo dovrà attenersi quindi strettamente alla traiettoria della “spesa netta” descritta nel Piano strutturale di bilancio, e questo comporta scelte difficili. Tenere la spesa su una traiettoria decrescente in termini reali per molti anni comporta sacrifici pesanti su alcune voci, anche perché ve ne sono altre, come le pensioni, la cui dinamica spontanea è comunque crescente, dato l’allargamento della platea dei beneficiari per fattori demografici.
Scelte scomode
È arrivato dunque il momento delle scelte scomode, che rischiano di doversi concretizzare proprio nei due anni precedenti le elezioni politiche. Difficile agire sulle grandi voci di spesa in modo esplicito, visto che per sanità e istruzione già spendiamo (pro capite) meno di quanto spendano i nostri grandi partner europei (Francia e Germania), anche tenendo conto del differenziale di Pil pro capite. E i risultati si vedono sempre più in termini di efficacia e qualità dei servizi, con effetti negativi sul benessere e sulla stessa crescita economica.
Resta da capire, allora, come si potranno reperire le risorse per affrontare eventuali ulteriori necessità di spesa. All’ordine del giorno è il tema della difesa, alla luce delle recenti proposte provenienti dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, e dalla presidente della Commissione europea, che puntano a un allargamento delle spese militari (nazionali).
La Germania può spendere
In Germania, il prossimo cancelliere Friedrich Merz (Cdu) ha annunciato di volere modificare i vincoli costituzionali che limitano l’azione del governo tedesco, in modo da finanziare le spese per la difesa, ma anche da aumentare quelle per le infrastrutture. Non sappiamo invece quale sarà la direzione del cambiamento delle regole in sede europea (se ci sarà).
Mentre l’idea di ricorrere agli eurobond, e quindi a nuovo debito comune, è già stata bocciata dal cancelliere uscente Olaf Scholz (Spd, che formerà la grande coalizione con Cdu), ben cosciente che la Germania e altri paesi nordici hanno spazi fiscali ben più ampi dell’Italia e possono finanziarsi a tassi più bassi.
C’è dunque il rischio che l’aumento delle spese nazionali per la difesa (al di là dei dubbi sull’efficacia) abbia effetti asimmetrici fra i Paesi europei, intensificando le pressioni al ribasso sulla spesa sociale proprio in Italia.
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