Al via la Commissione che indagherà sulle stragi di siriani alawiti

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Aumenta ancora il numero di civili alawiti uccisi in Siria, tra cui donne e bambini, nei massacri compiuti dalle milizie sunnite governative e da bande di jihadisti, anche stranieri. Sono 1.225, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria. Sono stati giustiziati sommariamente, bastonati a morte, colpiti alla testa con armi da fuoco e uccisi in altri modi in 47 località diverse nelle regioni costiere di Latakia e Tartus e nell’entroterra tra Hama e Homs. Un bagno di sangue di cui si conosceranno le dimensioni reali solo più avanti, o forse mai, quando e se terminerà il blocco imposto su tutta la costa mediterranea siriana dai reparti di sicurezza agli ordini del presidente autoproclamato e post-qaedista Ahmed Sharaa (Al Julani).

«Nessuno è al di sopra della legge, trasmetteremo tutti i risultati delle indagini alla presidenza e alla magistratura», assicura Yasser Farhan, portavoce della Commissione d’inchiesta formata dalle autorità di Damasco, che sta compilando liste di testimoni da interrogare e di potenziali responsabili di atrocità. Difficile, tuttavia, dare credito a queste indagini. È poco probabile che il nuovo regime siriano scelga di punire coloro che affermano di essere entrati in azione nei giorni scorsi per difendere lo Stato dal «colpo di Stato» che avrebbero tentato i lealisti del presidente deposto Bashar Assad. Una tesi inverosimile, considerando l’evidente disparità di forze, che però raccoglie consenso in Siria.

 

Chiede giustizia la scrittrice e attivista Hanadi Zahlout, conosciuta da molti come la «Figlia della Rivoluzione». Nota per la sua lunga opposizione a Bashar Assad, ora piange la morte dei tre fratelli – Ahmed, Ali e Abdul Mohsen – per mano del nuovo regime nel villaggio di Sanobar, a Jableh. La scrittrice punta l’indice contro il gruppo salafita «Suleiman Shah» (gli Amashat). «Rispetto la decisione di formare una commissione d’indagine, ma mi esprimerò solo dopo aver valutato i suoi risultati», ha dichiarato Zahlout al giornale libanese Al Modon.

La situazione ieri sembrava tornata calma in molte zone, mentre altre restano inaccessibili. La tensione, invece, è salita lungo la frontiera con il Libano. Il versante libanese del confine è popolato in prevalenza da sciiti e la Valle della Bekaa è una roccaforte del movimento Hezbollah, per decenni alleato di Bashar Assad. Se da un lato i massacri in Siria rafforzano il giudizio di Hezbollah sul potere di Ahmed Sharaa, dall’altro i leader sciiti libanesi temono le ripercussioni del bagno di sangue e negano categoricamente che combattenti dell’organizzazione siano entrati in Siria. Hezbollah, che sta vivendo una fase delicata, anche di dibattito interno dopo il lungo conflitto con Israele, mantiene un profilo basso per non fornire alibi per scontri settari anche in Libano. Si teme in particolare che i gruppi salafiti più radicali di Tripoli, storica roccaforte sunnita, possano entrare in conflitto armato con gli alawiti del Jabal Mohsen, un’area già teatro di violenze con morti negli anni passati. Sabato sera un accoltellamento tra giovani ha innescato risse e disordini a Qibbeh, Bakar e Bab Tabbaneh, dove si sono uditi degli spari.

Intanto, mentre lunedì sera Israele tornava a colpire con la sua aviazione ciò che resta dell’arsenale militare siriano e nell’ovest del Paese proseguivano le uccisioni di alawiti, Ahmed Sharaa ha firmato un accordo con il comandante curdo Mazloum Abdi per l’integrazione nello Stato delle istituzioni civili e militari controllate dalle Forze democratiche siriane (Sdf) nella parte nord-orientale del paese. L’accordo prevede che i valichi di frontiera attualmente sotto il controllo delle Sdf, un aeroporto e i giacimenti di petrolio e gas nella Siria orientale diventino parte dell’amministrazione di Damasco. L’intesa non specifica in che modo le forze curde saranno integrate nel ministero della Difesa, un punto di disaccordo nei colloqui svoltisi fino a due giorni fa. Sharaa ha comunque segnato un punto a suo favore, anche perché la Turchia, suo sponsor e nemica del popolo curdo, si è detta «cautamente ottimista». Inoltre, ha raggiunto un accordo preliminare anche con i drusi della regione meridionale di Suweida. L’intesa rappresenta una risposta a Benyamin Netanyahu, che aveva annunciato la disponibilità di Israele a «proteggere i drusi».

 



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