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Il «tassello mancante», così la Commissione europea ha presentato il nuovo piano per i rimpatri: ciò che mancava al Patto Ue sulla migrazione e l’asilo adottato lo scorso maggio e probabilmente operativo dal 2026. Il commissario Magnus Brunner ha introdotto le nuove regole martedì 11 marzo all’Eurocamera, come una «nuova politica comune», che crea «un bilanciamento tra garanzie ed obblighi», urgente perché «non è accettabile che 4 migranti su 5 ritenuti irregolari non lascino il paese» e contro la criminalità, perché «il fatto di entrare nel territorio dell’Unione e riuscire a rimanerci è un’opportunità economica per i trafficanti». Si tratta di una riforma in senso restrittivo della direttiva del 2008 che regolamenta il ritorno in patria degli immigrati clandestini. Tra le novità principali: l’allungamento della detenzione per i migranti trovati senza documenti nei paesi Ue, da 18 a 24 mesi, ossia di un terzo della pena, e la previsione di hub per i rimpatri in paesi terzi, ossia fuori dall’Unione. Quelli che Estrella Galan del gruppo “La Sinistra in Europa” ha definito «tante piccole Guantanamo in diversi paesi».
Le nuove regole rappresentano un indirizzo politico che il governo italiano non ha tardato ad intestarsi. Stefano Cavedagna, membro di Fratelli d’Italia, europarlamentare nel gruppo dei conservatori (Ecr) ha esordito in plenaria affermando: «Finalmente la linea meloni è diventata la linea di tutta l’Europa». Il riferimento è al fallimentare progetto italiano della costruzione di hub in Albania per i richiedenti asilo. Per adesso quei centri sono rimasti vuoti, dato che i tribunali non hanno convalidato il trattenimento, a causa della impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli stati di provenienza delle persone trattenute, cosa che ha reso questi centri solo uno spreco di soldi pubblici.
La Commissione europea ha in realtà precisato che non si tratta del modello Albania. «Oggi ho sentito diverse persone che da destra cercano di vendere questo regolamento rimpatri come un grande successo nel modello albanese, in realtà anche il commissario Brunner ha più volte ripetuto non c’entra niente con l’Albania. Quello è per processare le richieste di asilo, questo invece è per i rimpatri di chi è già qua», ha detto a Zeta, Cecilia Strada. In Albania gli stranieri dovrebbero risiedere in attesa dell’accettazione dell’asilo. Il piano Ue prevede di rinchiuderli negli hub dopo il diniego dell’asilo, in attesa della riammissione nel loro paese.
L’altra esperienza simile in termine di hub è quella dell’accordo tra Regno Unito e Ruanda, anche in questo caso si trattava di richiedenti asilo e pure questa è stata un fallimento: Londra è riuscita a riallocare nel paese africano solo quattro persone. «Nelle migliori delle ipotesi si tratta di spreco di denaro pubblico» ha aggiunto Strada. Il testo presentato alla Camera ha non pochi punti oscuri. Innanzitutto, la «generica dicitura di “paesi che rispettino i diritti umani”», per poter diventare sede di questi hub, «senza specificare di quali convenzioni internazionali devono essere firmatari» non ci permette di sapere cosa effettivamente accadrà alle persone costrette dentro i centri.
Sembra che la mancanza di trasparenza sia il leitmotiv del piano. «Ci si chiede perché non ci sia l’obbligo di rendere pubblici gli accordi bilaterali con i paesi terzi sede degli hub». C’è anche un passaggio alquanto criptico nel programma: «Per garantire un rimpatrio efficace, la comunicazione con le entità di un paese terzo ai fini della procedura di riammissione non deve equivalere al riconoscimento diplomatico delle entità del paese terzo interessate». Il dubbio è lecito «ma di cosa stiamo parlando? Di che entità si tratta? – si chiede Strada – si mettono le mani avanti su questi accordi, ma già stringere patti vuol dire di fatto dare legittimità di interlocutore politico all’entità con cui li stringo».
Potrebbe voler dire che pur di riammettere i migranti non idonei a rimanere sul suolo dell’Unione, i paesi membri potrebbero parlare con qualsiasi organizzazione all’interno degli stati, anche quelle che normalmente non sarebbero riconosciute diplomaticamente. Dal piano, oltre alla mancanza di trasparenza, emerge anche una frammentazione della regolamentazione, dopo plenarie colme di inviti ad agire uniti sulla difesa, sulle infrastrutture strategiche e nel settore medico, la previsione che ogni stato regoli come meglio crede il suo rapporto con lo stato terzo «aprire la porta a diversi accordi di fatto non genera una politica comune».
Inoltre, questa politica degli hub in territorio straniero «ci rende ricattabili dagli altri paesi, come si è già visto, anche se in un caso diverso con l’Italia, che ha rilasciato un ricercato dalla corte penale internazionale e l’ha riportato in Libia su un volo di stato». Oltre ciò, «manca anche un meccanismo di sospensione del rimpatrio», aggiunge Strada – ci chiediamo allora che cosa succederebbe a una persona che ha chiesto di rivalutare il suo asilo, ma che è stata nel frattempo rimpatriata, nel caso in cui il giudice le desse ragione. Non credo proprio la verrebbero a prendere nel suo paese d’origine».
Da queste criticità sembra che il piano, più che essere concentrato sulla gestione della migrazione, pensi a lavarsene le mani, citando indirettamente le parole di Leoluca Orlando, membro dei Verdi ed ex sindaco di Palermo che in plenaria ha detto «atteggiamento da Ponzio Pilato». L’allungamento della detenzione a 24 mesi, prevista anche per i minori, che sono invece esclusi dal trasferimento in hub fuori dall’Ue «ha pure un effetto contrario ai rimpatri» dice Strada. Secondo ActionAid dai Cpr sono rimpatriati solamente il 10% nel 2023 delle persone colpite da un provvedimento di espulsione
Il problema di questo piano dei rimpatri e di piani simili è un errore di fondo: pensare che alcuni abbiano più diritti di altri. L’accusa che la sinistra si occupa troppo degli “altri” e non dei propri cittadini, sfruttata dai partiti di estrema destra non regge per Cecilia Strada «pensiamo anche all’Italia e al Partito democratico con cui sono stata eletta: siamo gli stessi che si battono per i diritti dei migranti e che lottano per il salario minimo e per abbattere il costo delle bollette. I diritti non sono in contrapposizione, ma vanno tutti assieme». Non solo è più umano lottare per i diritti altrui, ma «serve a tutti e non è semplicemente un fatto di giustizia, è anche un fatto di furbizia garantire i diritti di tutti, perché un giorno toccherà a noi. I diritti si guadagnano insieme e si perdono insieme».
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