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Rumore sempre più intenso e diffuso, sempre più cupo e minaccioso, dello stoccaggio delle armi, da stipare fino a colmarne i magazzini e riempire di cifre iperboliche, nell’ufficio accanto, le fatture delle aziende che le producono e delle agenzie che organizzano il commercio delle armi.
Ci si riarma freneticamente dovunque, in tutte le nazioni, con la pretesa, come fa la Polonia, di avere a disposizione anche le bombe atomiche. Affrettatevi, investite il vostro denaro nelle azioni delle imprese che fabbricano e vendono le armi! Produrranno massacri in qualche parte della terra, ma in compenso il portafoglio degli investimenti vedrà crescere a vista d’occhio l’ammontare degli utili.
Mi viene da domandarmi anche quale trucco i ministri che firmano i decreti del riarmo e i parlamentari che votano le leggi relative, hanno già messo in atto perché, arrivato il momento, i loro figli non siano inviati al fronte.
A sentire i notiziari di questi giorni, sembra che il mondo stia impazzendo. Qualunque episodio di aggressione avvenga, a nessun altro possibile rimedio si pensa, che non sia quello di sparare, bombardare, distruggere e uccidere, come se l’intelligenza avesse chiuso a doppia mandata e reso inutilizzabili tutti gli altri spazi delle sue infinite potenzialità.
La politica, dalla condizione nobile dello stato di diritto che ripudia la guerra, sta tornando a maneggiare la clava: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta» (Salvatore Quasimodo).
Sulla triste scena di un mondo precipitato nella follia, «il Signore dal cielo si china… per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio. Sono tutti traviati, tutti corrotti; non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 14,2-3).
C’è qualcuno sulla terra che possa accogliere l’imperativo del profeta: «Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti»? (Is 58,1). Chi potrebbe e dovrebbe oggi, a nome dell’umanità, o almeno a nome del grande corpo dei cristiani di tutte le Chiese presenti nel mondo, o almeno a nome della Chiesa cattolica, oggi, che il papa, ammalato, tace, gridare a squarciagola per dire che programmare guerre è un delitto?
Il Consiglio ecumenico delle Chiesa non può ridursi al silenzio, solo perché il patriarcato di Mosca non aderirebbe alla sua condanna della guerra e del riarmo forsennato che sta impegnando gli stati.
La situazione non è normale, è gravissima. In una situazione al limite, le regole procedurali devono piegarsi alla drammatica urgenza dei fatti. Lasciando da parte le ineffabili sottigliezze dell’abituale dialogo ecumenico, nel quale ciascuno deve presentare intatta la sua propria identità, non dovrebbe essere difficile per il Consiglio ecumenico e la Chiesa cattolica trovare parole comuni per gridare al mondo, in dieci righe, che la guerra è un abominio, una vergogna dell’umanità.
Il mondo oggi non ha bisogno di trattati teologici sulla guerra e la pace. Le Chiese hanno avuto la capacità di elaborarne e ne ha pubblicati molti e di alta qualità di pensiero.
Nel 1983 i vescovi americani avevano reagito con forza contro la politica di riarmo del presidente Reagan con la dichiarazione La sfida della pace: la promessa di Dio e la nostra risposta, ed è di un anno fa la dichiarazione Pace a questa casa dei vescovi tedeschi.
Oggi il mondo non ha bisogno di alcun documento, ma di un grido forte e appassionato, come quelli dei profeti, che scuota le coscienze e risvegli il senso di responsabilità dei popoli, al di sopra delle decisioni dei loro governanti.
Le conferenze episcopali, quelle di tutto il mondo, non possono restare silenziose. In particolar modo ora che il papa, ammalato, tace. Ma anche in altri tempi gli episcopati locali non possono delegare al papa la predicazione della pace, perché la promozione della pace è missione di tutta la Chiesa.
È vero che molto pesa sugli animi l’esperienza dei tanti appelli inascoltati, delle molte esortazioni cadute nel vuoto. Ma mai e in nessun caso un dovere viene meno solo perché si prevede che non porterà il suo frutto. «Non è un motivo – direbbe don Milani – per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima» (Opere I, p. 961).
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