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Sabato 15 marzo alle ore 19, con ingresso pubblico alle ore 18 per il pubblico fino ad esaurimento posti, va in scena al Teatro “Salvatore Cicero” di Cefalù: “Arte_mi_Sia. Inchiesta sul bello e l’osceno” di Santi Cicardo, con Francesco Gulizzi, Enrica Volponi Spena, paesaggi sonori e immagini di Leonardo Bruno, regia di Santi Cicardo. Lo spettacolo è il terzo appuntamento della rassegna di Teatro Contemporaneo “Marea”, la cui direzione artistica è firmata dallo stesso Cicardo con cui abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere sullo spettacolo.
Di che tratta lo spettacolo e da cose nasce?
“Arte_mi_Sia. Inchiesta sul bello e l’osceno” è uno spettacolo-inchiesta sullo stupro che la “ pittora”, mi piace chiamarla così visto che a quel tempo non era ancora in uso il termine pittrice, Artemisia Gentileschi, subisce nel 1611 da parte di Agostino Tassi suo maestro di prospettiva. La genesi dello spettacolo è molteplice. Già nel 2018 in compagnia avevamo trattato il tema del femminicidio attraverso una rilettura dell’”Otello” di Shakespeare, in quel caso il nostro focus si era concentrato sulla mente del maschio, che per gelosia e “per amore” decide di uccidere la donna amata. Sentivamo l’esigenza di indagare l’altra faccia della medaglia, ossia l’animo e il corpo di una vittima di violenza. Nel 2021 mi trovavo a Firenze alla galleria degli Uffizi davanti al dipinto più noto di Artemisia Gentileschi “Giuditta decapita Oloferne”, e in quella occasione mi sono detto che la protagonista di un nostro nuovo spettacolo che s’interrogasse sulla violenza contro le donne, non poteva che essere lei.
Cosa la colpisce della vicenda di Artemisia Gentileschi?
Diverse cose. La prima è che quello stupro è un esempio plastico di una cultura patriarcale e maschilista, in cui la donna è declassata a mero oggetto di desiderio e relegata socialmente a un ruolo ancillare rispetto al maschio. La seconda è che lo stupro di Artemisia è il primo caso nella storia di violenza sessuale di cui conosciamo i particolari grazie agli atti del processo che si tenne nel 1612. La terza è la determinazione e la forza con cui una ragazza di appena diciotto anni, nonostante un ambiente ostile, la pittura come tutta l’arte in generale era un campo esclusivamente maschile, riesce ad autodeterminarsi e ad affermare il suo talento.
Sembrerebbe una storia relegata a un tempo ormai superato?
Non direi proprio. Il “victim blaming” che subisce Artemisia durante il processo, ossia la colpevolizzazione da parte del pubblico che vi assiste e dei giudici che lo celebrano, è lo stesso meccanismo che ancora oggi molte vittime di stupro sono costrette a subire. Il monologo finale che Artemisia, interpretata da Enrica Volponi Spena, pronuncerà, recita così “oltraggia il mio corpo e sporca il mio nome/ qualcuno ti crederà/ non preoccuparti/ sono io che cerco il lupo/ e il lupo in branco arriverà/ per sbranarmi senza pietà”. Mi sembrano parole sentite ahimé troppo di recente. Ma c’è di più. Davanti a quell’opera nella galleria degli Uffizi, per quanto mi sforzassi di osservare la composizione, la tecnica, i colori, la luce del quadro la mia mente andava continuamente alla vicenda dello stupro che Artemisia aveva subito. Era come se non riuscissi a vedere l’opera in sé ma solo attraverso la violenza subita della “pittora”. La cosa sembra normale, ma non è così. Davanti a un’opera di Caravaggio o di Benvenuto Cellini non penso alla loro carriera criminale, vedo solo l’intensità delle loro opere, di fronte ai ritratti di Artemisia invece, è come se l’opera d’arte passasse in secondo piano. Ecco in quel momento mi sono sentito di tradirla, mi sono sentito anche io un ingranaggio di un pensiero patriarcale e maschilista radicato e pervasivo.
Nel sottotitolo dell’opera compare la parola inchiesta, c’è un motivo particolare?
Sì, la ragione è di composizione drammaturgica e scenica. Avevamo l’interesse di mettere in scena uno spettacolo che non si sublimasse in una sorta di catarsi, volevamo che gli spettatori non si abbandonassero al dolore di Artemisia ma che restassero vigili. Abbiamo perciò deciso di virare per una composizione brechtiana, in cui tra personaggi e interpreti vi fosse una distanza critica, la stessa che vorremo si creasse tra il pubblico e quella vicenda. Crediamo, infatti, che solo così, senza una lavacro finale, si possa restare attenti rispetto alle questioni su cui si interroga lo spettacolo.
Questo giustifica la scelta dell’ambientazione e dei costumi?
Sì abbiamo deciso di ambientare lo spettacolo in una sorta di studio di registrazione dei nostri giorni, in cui gli interpreti, Enrica Volponi e Francesco Gulizzi, studiano la vita e gli atti del processo di Artemisia fino ad essere risucchiati dentro quella vicenda. È un concertato di voci che si sovrappongono su più piani temporali, di suoni e immagini, curati da Leonardo bruno, che solo alla fine lasciano essere la voce intestimoniabile e inaudibile di Artemisia.
Prima di chiudere una battuta come direttore artistico della rassegna “Marea”
Sono stato felicissimo al limite dell’imbarazzo, quando al termine del nostro spettacolo “Otello&Desdemona o del femminicidio” al teatro “Salvatore Cicero”, il sindaco Daniele Tumminello e l’assessore al Turismo Rosario Lapunzina mi hanno proposto di poter organizzare una piccola rassegna di teatro contemporaneo. Credo che l’impegno dell’amministrazione comunale di Cefalù nell’offrire ben due rassegne teatrali, testimoni di quanto la stessa consideri il teatro, non una mera forma di spettacolo, ma uno strumento di impegno civico e un modo per fare e sentirsi comunità. Anche la scelta dell’ingresso gratuito va in questa direzione, ribadisce che in un epoca di commercializzazione e di profitto l’accesso alla cultura deve essere garantito a tutti. Un teatro di tutti e per tutti.
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