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I social sono un po’ lo specchio del mondo di oggi. Anche se specchio il più delle volte opaco.
Perché troppo rissoso, troppi con la pretesa di avere in tasca la verità assoluta.
Oggi in tanti si stanno chiedendo se sono strumenti che lasciano trasparire la natura delle cose, oltre il velo delle opinioni, oppure se invece la nascondano.
Tanto che molti hanno cominciato a lasciarli.
Ma così va il mondo oggi.
Un mondo però diverso da quello che ci ha garantito la pace negli ultimi 80 anni. Almeno in Europa, a parte il dramma jugoslavo degli anni novanta e la storia tragica degli ultimi anni.
Allora c’era una speranza, oggi domina il disincanto dello scetticismo. La benzina cioè che alimenta l’uso distorto dei social.
Una cosa è certa, siamo ad un passaggio d’epoca. Con Trump o senza Trump.
La fine di un certo cioè ordine geopolitico, eredità del secondo dopoguerra.
Trump ha solo accelerato questo cambio di paradigma.
Tutti stiamo cercando di capire il come, più che il che di questa nuova stagione.
La vittoria di Trump sta imponendo il criterio base di questa nuova Yalta, cioè di questa nuova divisione del mondo in sfere di influenza.
Chi conosce un po’ l’Africa, tanto per capirci, questo passaggio a nuovi equilibri di potenza sta durando già da alcuni anni, anche prima di Trump.
Pensiamo solo al ruolo della Wagner per i russi, e all’azione aggressiva dei russi contro le popolazioni autoctone, costrette a fuggire da intere regioni del Sahel.
Possiamo perciò affrontare quanto sta avvenendo in diversi modi.
Anzitutto attraverso una lettura morale, oppure meramente politica, con l’economia e le nuove tecnoscienze a fare da apripista.
Due linee interpretative entrambe legittime, ma diverse.
Sui social, anzitutto, mi pare prevalgano le considerazioni di tipo etico, per le conseguenze anche tragiche che parlano la lingua delle guerre e delle armi.
Ma l’etica non basta. Per il semplice motivo che le ragioni di un possibile giudizio etico non sono evidenti a tutti, tanto da non essere condivise tra gli attori in campo, ma fonte invece di ulteriori conflitti.
Dovrebbe essere la forza della politica, e non la politica come forza, a trovare punti di mediazioni. Ma vediamo che raramente è così.
Il più grande progetto politico di pacificazione degli ultimi decenni porta il nome di Europa. Compresa la decisione prima nel 1951 con la Ceca, poi quella fallita del 1954 della difesa comune, poi nel 1957 col Trattato di Roma e la nascita della Comunità Economica Europea, fino ai giorni nostri. Con luci e ombre, ce lo ripetiamo, un progetto però con una sua grande speranza, chiamata cooperazione, cioè la convivenza pacifica. Cioè la pace.
Chi oggi non si direbbe pacifista, concentrando le proprie risorse sui temi più urgenti della qualità della vita?
Ma, lo sappiamo dalla storia, non si vive di sola speranza.
Proprio per questa ragione tutti i pacifismi non hanno la stessa misura.
Come non tutte le propagande o narrazioni, per andare al sodo, hanno lo stesso valore.
Perché difendersi è un diritto.
E un diritto etico prima che politico.
Non entriamo ora, come è giusto, nelle discussioni tra i vari pacifismi, lasciando a quella libertà che ci è stata regalata dalla democrazia in questo secondo dopoguerra, dopo una guerra di resistenza di quasi due anni; lasciando a questa libertà, dicevo, il compito di aiutarci a guardare in faccia la realtà.
Sapendo che non c’è libertà senza domanda di verità e senza domanda di giustizia, per capire come stanno realmente le cose. Al di là di ogni complottismo o accusa pregiudiziale.
L’etica, in altre parole, non è solo gioco tra punti di vista.
Esiste anche l’etica pubblica, quella, ad esempio, che dovrebbe rispondere alla domanda su quel diritto legittimo alla difesa che ritroviamo nell’art.11 della nostra Costituzione.
Questo articolo impegna il nostro Paese a ripudiare la guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali, e a promuovere un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia, nell’ambito quindi del diritto internazionale.
Il senso di questo articolo dunque è chiaro: ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza, e lo Stato ne è garante.
E questo diritto non ha confini nazionali, per essere reale, ma internazionali.
Diritto internazionale, dunque, non solo individuale o di singolo Paese o di un gruppo di Paesi.
“Si vis pacem, para bellum”, cioè se vuoi la pace prepara la guerra, recitava una locuzione latina. Anche se noi vogliamo o vorremmo pensare che la deterrenza non debba mai essere la sola misura di difesa.
Perché la pace richiede altro.
La speranza oggi la vedo nella generazione Erasmus, cioè nelle fila di giovani che, nel corso degli anni, hanno imparato a conoscere e confrontarsi, non solo in Europa, con i loro coetanei, con i diversi bisogni, desideri, complessità.
Il loro valore aggiunto è che non ci può essere coesistenza pacifica senza almeno porsi dal punto di vista dell’altro e degli altri.
Insomma, il vero antidoto alla logica della violenza, al ritorno dei confini, all’uso strumentale delle tragedie di chi è costretto a migrare sono proprio loro, i giovani. Per dire che sono la conoscenza, la cultura, la formazione il nostro più grande investimento.
Ma ci vuole tempo. Mentre noi sembriamo avere fretta, illusi che la dittatura del presente debba sempre automaticamente imporsi. Pensiamo al ritorno alla guerra dei dazi.
Chi conosce un po’ la storia sa che sullo sfondo rimane sempre enigmatica la legge fondamentale, l’eterogenesi dei fini.
Ci vuole tempo, e la pazienza della storia.
Anche se, lo sappiamo, purtroppo sono poi le persone, nella loro vita, ad essere le sole vere vittime della follia tutta umana della guerra e dei conflitti.
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