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Lo scorso 4 marzo la Presidente Von der Leyen ha annunciato alla Commissione europea il ReArm Europe Plan. Un nome che non lascia molto spazio all’immaginazione, tant’è che nella conferenza stampa non ha sentito nemmeno il bisogno di giustificare tale scelta storica, limitandosi ad una lunga e sconclusionata successione di allusioni: “Non ho bisogno di descrivere la natura grave delle minacce che affrontiamo o le conseguenze devastanti che dovremo sopportare se tali minacce si concretizzassero. Perché la domanda non è più se la sicurezza dell’Europa sia minacciata in modo molto reale o se l’Europa debba assumersi una maggiore responsabilità per la propria sicurezza. In verità, conosciamo da tempo le risposte a queste domande.”
Quel che importa, d’altronde, sono le conclusioni: “Siamo in un’era di riarmo. E l’Europa è pronta ad aumentare massicciamente le spese per la difesa.”
Insomma, dalla Dichiarazione di Schuman del 1950, che proponeva l’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per intrecciare la catena del valore dell’industria bellica francese e tedesca con l’obiettivo di perseguire addirittura la pace mondiale, al Trattato di Lisbona, secondo cui – all’articolo 3 – “l’Europa promuove la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”, passando per il Premio Nobel per la pace conferito alla stessa Unione europea, nel 2012, per “aver contribuito per oltre sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa” – con poche, concise parole la Commissione europea ha mandato in fumo circa mezzo secolo di narrazione costruita intorno alla decantata Europa degli 80 anni di pace.
E se alcuni si sfregano le mani alla possibilità di un ritorno al “keynesismo di guerra”, con un imponente piano di investimenti diretti all’industria bellica nel tentativo di rilanciare produzione e occupazione attraverso l’impegno militare, vale la pena chiarire una cosa.
L’orizzonte strategico del keynesismo di guerra rappresenta, ai nostri occhi, nient’altro che un orizzonte di morte per i popoli europei, che troverebbe nella tendenza alla piena occupazione solo ed unicamente la coesione sociale che serve a marciare disciplinatamente verso il precipizio della macelleria della guerra e delle funeste ambizioni imperialiste.
Come vedremo, però, l’Unione europea pretende di mandare al macello i suoi popoli senza neanche il buon gusto di un pasto caldo.
Il primo punto del Piano per il riarmo europeo consiste nella clausola di flessibilità, inserita nel Patto di stabilità e crescita, che consente agli Stati membri di derogare ai vincoli europei alla spesa pubblica nella misura in cui tale spesa viene indirizzata all’incremento della produzione bellica.
Il secondo punto è un fondo comune destinato a prestare risorse agli Stati membri che desiderino investire nella spesa militare. Il terzo punto è un’ulteriore deroga alle regole europee – questa volta per consentire agli Stati membri di deviare le risorse europee della politica di coesione sugli investimenti in armamenti.
Chiudono il cerchio non meglio precisate iniziative per mobilitare il capitale privato, sia attraverso un rafforzamento del mercato dei capitali europeo (la cosiddetta Savings and Investment Union) che attraverso un qualche intervento della Banca europea per gli investimenti, dunque altri prestiti destinati allo sforzo bellico.
Se quindi le stringenti regole europee dovevano essere un dogma irremovibile, tanto da portare Grecia, Spagna, Italia e Portogallo allo smantellamento del proprio stato sociale, ecco che, se invece la spesa pubblica viene indirizzata verso la corsa agli armamenti, allora si può subito trovare un modo per chiudere un occhio perché ora sì che sono soldi ben spesi…
Ma i conti non tornano. Gli 800 miliardi di euro millantati dalla Von der Leyen sembrano essere la somma dei 150 miliardi di euro del secondo pilastro del Piano, il fondo per gli investimenti bellici, e 650 miliardi di euro che la stessa Von der Leyen cita nel suo intervento a titolo meramente esemplificativo quando, descrivendo il primo pilastro – ovvero la clausola di flessibilità sui vincoli alla spesa pubblica – immagina gli effetti “su quattro anni” (!) della realizzazione dell’ipotesi che ciascuno Stato membro aumenti la spesa per armamenti dell’1,5% del proprio PIL.
Ecco che il keynesismo di guerra della Commissione europea finisce per assomigliare tragicamente all’operazione “Oro alla patria”, quando il fascismo provò a finanziare la vergognosa impresa coloniale in Etiopia con le fedi nuziali degli italiani.
Già, perché da un lato i 150 miliardi di euro di prestiti non sono altro che le risorse avanzate dall’altra fallimentare iniziativa europea, NextGenerationEU, il piano di 800 miliardi di euro (un numero che evidentemente piace a Bruxelles) varato nel 2021 per superare la crisi pandemica. Rimanenze dovute al fatto che la maggior parte degli Stati membri disse “grazie, ma no grazie”, così da evitare le riforme strutturali che quel debito ha imposto.
Fondi che restarono in buona parte nei cassetti della Commissione europea per essere rispolverati ora: ma ciò significa che quei 150 miliardi erano già negli 800 miliardi del NextGenerationEU, e se pure venissero usati – questa volta – non genererebbero alcun impatto aggiuntivo rispetto a quelli già stimati sulle risorse stanziate nel 2021.
D’altro canto, gli altri 650 miliardi di euro millantati dalla Von der Leyen sono, per sua stessa ammissione, spalmati su quattro anni; dunque, corrispondono a meno dell’1% del PIL annuo dell’Unione europea: non solo rappresentano una mera ipotesi di scuola, ma anche se venissero effettivamente mobilizzati costituirebbero uno stimolo davvero limitato alla crescita e all’occupazione.
Tirando le fila di questo Piano per il riarmo dell’Unione europea, appare evidente che tale iniziativa non modifica di una virgola il contesto di austerità fiscale che impone precarietà, disoccupazione e povertà ai popoli europei da oltre trent’anni.
Inserendosi nelle maglie strette del Semestre europeo, che scandisce tempi e ritmi dei tagli alla spesa pubblica degli Stati membri, il Piano si limita a sfruttare i pochi margini esistenti nei conti pubblici per vincolarli o reindirizzarli alla spesa militare: l’Unione europea ci sta dicendo non solo che dobbiamo tagliare sanità, trasporti, scuola, cultura, servizi sociali, ma anche che ogni euro disponibile deve necessariamente trasformarsi in un proiettile, per alimentare una guerra al confine orientale dell’Europa che continua a rappresentare l’unico reale orizzonte offerto dalle élites europee alle prossime generazioni.
Per tutto questo, per dire no alla follia bellicista e al baratro nel quale la retorica guerrafondaia europea ci vuole spingere, per la pace e per il futuro, sabato 15 marzo alle 15 ci vediamo a Piazza Barberini.
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