L’economia secondo Donald Trump

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Con il secondo mese del nuovo mandato di Donald Trump si comincia a delineare meglio quale sia il modello economico che il Presidente voglia attuare nel territorio dell’Unione. Già in fase di campagna elettorale il motto della “prima corsa” vittoriosa nel 2016 “Make America Great Again” era stato declinato in una versione, diciamo, 2.0, con una visione di ben più ampia portata rispetto all’originale, andando ad abbracciare ogni ambito dell’economia del paese, dal mercato del lavoro alla politica monetaria, dalla manifattura ai servizi al commercio estero, seguendo uno schema che ha, sicuramente, diversi spunti interessanti ma che, ovviamente, posta con sé diversi rischi che si spera siano già stati soppesati come riflettono le dichiarazioni in materia degli ultimi giorni. Ma qual è, in definitiva, il programma economico che l’attuale POTUS vorrebbe portare a terra durante il suo mandato?

Il primo e più dibattuto punto è quello che riguarda la politica commerciale il cui focus si è incentrato soprattutto sui dazi che sono stati annunciati, applicati e, pure, sospesi, in queste ultime settimane.

Ora gli USA, contrariamente a quanto narrato da molti, non sono esattamente il faro del libero mercato ma rappresentano uno stato con un sistema protezionistico piuttosto esteso e ben strutturato, con dazi all’importazione che, finora, già arrivavano al 10% su diverse categorie merceologiche; dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump ha firmato, quasi subito, l’innalzamento di queste tariffe fino al 25% verso alcuni paesi e per determinate tipologie di merci ma, memori del primo mandato, è credibile che questo sia una “clava” per poter riaprire i tavoli negoziali per le relazioni commerciali bilaterali tra gli stati destinatari del provvedimento. L’obiettivo finale, spesso rimarcato anche in campagna elettorale, è quello di ribilanciare il deficit commerciale seguendo un principio di reciprocità, quindi con l’applicazione di dazi equivalenti a quelli applicati dagli altri stati alle merci provenienti dagli USA.

Un secondo punto basilare dell’idea della “nuova America” è lo stimolo alla rilocazione degli impianti produttivi, spingendo la manifattura interna con sgravi fiscali e incentivi ad hoc, cosa che già nel quadriennio 2016-2020 aveva dato dei buoni e incoraggianti risultati.  Ovvio che tutto questo si sposi con una rimodulazione verso il basso delle imposte e una diffusa deregolamentazione per permettere alle imprese statunitensi di essere competitive rispetto all’offerta dei mercai globali, cosa che si accompagna, infatti, alla rimodulazione delle tariffe all’importazione per evitare un dumping da parte di stati con costo del lavoro e energetico più basso.

L’intervento su imposte e tasse assume, quindi, un ruolo centrale perché il punto d’arrivo dovrebbe essere un’imposta sulle imprese flat del 15%, che segue il Tax Cuts and Jobs Act del 2017 che portò l’imposta sulle imprese dal 35% al 21%; a tutto questo dovrebbe seguire anche una semplificazione della progressività fiscale e un sistema di sgravi generalizzati per le famiglie, con un’attenzione particolare verso il ceto medio (che è stato il più colpito dallo shock inflattivo degli ultimi anni) per stimolare consumi e investimenti che sono prodromici a un nuovo ciclo di crescita economica.

Un altro punto importantissimo nel piano è quello relativo all’ammodernamento delle infrastrutture che verrà finanziato in gran parte per circa un trilione di dollari in 10 anni tramite crediti di imposta al settore privato che, però, dovranno avere un impatto neutro sul deficit contando sulla crescita economica che investimenti, nuova occupazione e, quindi, incremento dei consumi dovrebbero innescare.

La parola chiave, ora, è quella appena indicata “impatto neutro sul deficit” perché un obiettivo nuovo, rispetto al programma presentato e portato avanti durante il primo mandato, è quello relativo al pareggio di bilancio federale, azzerando il deficit e tornando ad avere un avanzo di bilancio per poter ridurre il debito pubblico accumulato e, a fronte di un piano di investimenti infrastrutturali decisamente importante e a un progetto di riduzione strutturale delle imposte, quello che ci si dovrebbe chiedere è “che fare?”. No, tra Trump e Lenin non c’è nulla che li accomuni se non una certa visione pragmatica dell’azione di governo e, contrariamente a quanto avrebbe potuto prevedere il secondo, l’unica via per poter arrivare al traguardo prefissato sulla finanza pubblica è quello di ridurre il perimetro dello stato, tagliando spese inutili e prestazioni sociali considerate non efficienti.

Gli USA, però, non sono l’Argentina e un piano come quello condotto laggiù dall’attuale presidente Javier Milei non sarebbe facilmente realizzabile però già l’azione dell’ufficio di efficientamento affidato a Elon Musk sta mostrando la direzione verso cui si vorrà indirizzare l’azione del governo con uno sfoltimento dell’impiego pubblico, riducendo il numero di dipendenti considerati superflui e, credibilmente, si arriverà a un taglio delle prestazioni sociali, anticipato da un tweet su X dello stesso Musk che indicava che in America ci siano più percettori di sussidi che residenti, oltre che l’età di circa 10 milioni di percettori superasse i 120 anni.

Ora, questa è palesemente una boutade perché, ammesso e non concesso che la SSA non abbia aggiornato i database sulla base dei decessi avvenuti negli ultimi decenni, l’agenzia interrompe automaticamente le prestazioni al compimento dei 115 anni, il 98% delle persone di età pari o superiore a 100 anni presente in DB non percepisce alcuna prestazione, secondo un report del 2023, e, in ogni caso, i controlli sull’effettiva sopravvivenza dei percettori di sussidio vengono periodicamente effettuati ma sia la modalità comunicativa, sensazionalistica, sia il tempismo con cui questa sia stata effettuata suggerisce che ci si potrebbe trovare di fronte a uno dei più ampi tagli, a livello di erogazione di pensioni e sussidi, che la storia ricordi.

C’è a questo punto una domanda, che dovrebbe sorgere in tutti coloro che leggano cosa preveda questo programma economico, che è “ma davvero potrà portare a un miglioramento della vita degli americani tutto questo?”.

Il dubbio è lecito anche perché i tagli alla spesa sociale significano solo una riduzione del perimetro del welfare state e a un possibile peggioramento delle aspettative della popolazione statunitense, inoltre un cambiamento così radicale di veduta, nell’azione economica, genera incertezza sui mercati perché non è un mistero che uno degli obiettivi finali di Trump e del suo entourage sia quello di scardinare il sistema economico globale, oggi esistente, per riscriverne le regole. Proprio qui scatta la vera criticità di tutto l’impianto, il percorso necessario per giungere a un risultato simile è lungo e non certo agevole, soprattutto se spinto solo da uno dei giocatori sullo scacchiere globale.

Ridisegnare i rapporti esistenti, sia in ambito economico sia in ambito politico, è un’impresa titanica, anche perché i ruoli del passato, oggi, si sono modificati e, benché gli USA restino ancora la prima potenza mondiale, la continua decadenza dell’Europa e della Russia, una volta primo “avversario” e contraltare a Washington, ha permesso la crescita repentina di un nuovo soggetto come la Cina e la creazione di altri gruppi economici piuttosto importanti, come quello dei BRICS, con i quali è necessario creare un sistema di accordi di scambio e di cooperazione che possano essere vantaggiosi per tutte le parti coinvolte.

Gli stessi USA non sono certo una corazzata invincibile perché nonostante Donald Trump ha sì ereditato da Joe Biden “un’economia in buona forma: crescita sostenuta, tenuta dell’occupazione, inflazione ancora sostenuta ma comunque in declino” , come indicato recentemente da Paolo Gentiloni, ex Commissario Europeo per l’Economia e ex Premier italiano, su la Repubblica, i dati macro e microeconomici sono allarmanti , seppur non a livello critico, poiché inflazione, disoccupazione, tassi di interesse e debito pubblico si collocano a livelli ben più alti rispetto a quanto era stato lasciato dall’attuale Presidente al momento della sconfitta elettorale nel 2020.

Certo la ventilata recessione che molti analisti vedono nei prossimi mesi non può essere completamente addebitata al nuovo governo, in carica da poche settimane, perché affonda le proprie radici nelle politiche economiche condotte nell’ultimo quadriennio in cui l’economia americana è stata drogata dalla spesa pubblica che ha prodotto quegli effetti inflattivi che hanno ridotto il potere d’acquisto della popolazione ma anche a livello produttivo stiamo arrivando al redde rationem.

Se questa si verificasse non sarebbe certo per questo avvio “a razzo” delle politiche commerciali trumpiane, che, comunque, hanno avuto un effetto piuttosto evidente sui mercati finanziari spingendo l’incertezza egli operatori che hanno iniziato a liquidare le posizioni provocando il ribasso marcato negli ultimi giorni, però lo stesso Trump ha ammesso, in un’intervista su Fox News qualche giorno fa, che la recessione, nei prossimi mesi, non sia da escludere ma che l’attuazione del suo programma economico andrà avanti poiché i possibili effetti di questo “periodo di transizione” sono già stati previsti ben sapendo che sia la riorganizzazione del sistema economico sia la rimodulazione delle tariffe doganali possano avere un effetto di crescita sui prezzi nel breve periodo e, per questo, sta usando queste ultime come arma negoziale, come già detto in precedenza, cosa che confonde la creazione di aspettative razionali negli operatori sui mercati.

È una scommessa, quindi, quella che si sta portando avanti oltreoceano per uscire definitivamente dal modello di spesa portato avanti dalla presidenza Biden che ha sì spinto la crescita nominale dell’economia statunitense ma ha anche innalzato in maniera netta debito pubblico, prezzi e disuguaglianze interne; per arrivare all’obiettivo, quindi, risulta accettabile anche una contrazione (momentanea) dell’economia e Wall Street in rosso e noi, sull’altro lato dell’oceano, sembra che saremo destinati ad essere meri spettatori che, probabilmente, ancora non abbiamo capito cosa giri nella testa di chi sieda nella Stanza Ovale.



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