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“Oltre agli aiuti, ai giovani agricoltori servono competenze e capacità imprenditoriali”


In un’Italia nota per l’eccellenza del “buon cibo”, il biologico e i prodotti IGP, la quantità di giovani che lavora in agricoltura è esigua e in costante riduzione, mentre le aree rurali si spopolano. Il quadro per chi intende inserirsi in questo settore è molto distante dall’immaginario bucolico dipinto dall’industria agroalimentare. Le sfide, dalla difficoltà di accedere al capitale fondiario alla scarsità di servizi nei territori rurali, sono al centro del dibattito del rinnovo generazionale sia in Italia che a Bruxelles. Ne abbiamo discusso con Matteo Ansanelli, segretario nazionale dell’Associazione Giovani Imprenditori di CIA Agricoltori Italiani. 

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Quali sono le principali difficoltà che i giovani incontrano nel momento in cui decidono di dedicarsi all’agricoltura?

Innanzitutto c’è l’accesso al capitale fondiario. I giovani, con disponibilità finanziarie limitate, trovano difficile raccogliere il capitale necessario per avviare un’attività agricola, un settore che richiede investimenti ingenti. Il secondo aspetto riguarda i servizi nei territori rurali, che sono estremamente carenti. La mancanza di infrastrutture – scuole, ospedali e, addirittura, sportelli bancari – rende l’agricoltura una scelta quasi eroica. Senza questi servizi, investire nella terra diventa un’impresa a rischio. Tutti questi aspetti hanno determinato il fenomeno dello spopolamento delle aree rurali, a cui si aggiunge un problema di immaginario connesso al settore agricolo. 

Cosa intende?

In Italia ci muoviamo tra l’immagine di un’agricoltura iper-industrializzata e robotizzata  e quella di un’agricoltura eroica, dove le condizioni di vita non sono neanche lontanamente equiparabili a quelle di altri settori economici. Bisogna invece comunicare l’agricoltura per quella che veramente è, senza nascondersi dietro false ideologie. In molti raccontano di un grande ritorno all’agricoltura, ma questo è falso. Considerate che in Italia tra il 2010 e il 2020 la popolazione agricola giovanile si è ridotta fortemente, passando da 280mila a 180mila agricoltori. 

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Tornando all’accesso alla terra, di quali strumenti si è dotata l’Italia? 

L’Italia è tra i pochi Paesi europei ad essersi dotata di un apposito strumento, di cui si occupa l’Ismea, l’ente che ha raccolto l’eredità della vecchia “Cassa della proprietà contadina”. L’Ismea fa ancora delle operazioni fondiarie a favore dei giovani attraverso interventi che sono prevalentemente con “patto di riservato dominio” che in buona sostanza è un leasing immobiliare. Si tratta dell’unica struttura che consente l’accesso alla terra senza garanzie, ma le dimensioni dell’aiuto restano limitate. Oggi gran parte dell’agricoltura si muove grazie agli affitti dei terreni.  

Cosa comporta la prevalenza dell’affitto?

Negli ultimi 25 anni abbiamo assistito a un capovolgimento delle modalità di gestione della terra: si è passati da una gestione basata sulla proprietà a una conduzione in affitto. Questo comporta notevoli conseguenze: gli affitti, spesso brevi, creano instabilità e scoraggiano gli investimenti a lungo termine. Inoltre, molti proprietari sono anziani e, in caso di successione, gli eredi tendono a preferire la spartizione del denaro piuttosto che mantenere la terra, rendendo ancora più arduo l’ingresso dei giovani nel settore. Non sempre l’affittuario è dotato dei capitali per acquistare dagli eredi. 

E questo come impatta sui giovani?

In agricoltura l’acquisto del terreno ha rappresentato in passato una sorta di Trattamento di fine rapporto (Tfr), un’ancora economica per il futuro. Considerando che attualmente la forma prevalente di titolo di possesso del terreno è l’affitto se lo combiniamo con la prospettiva pensionistica di un giovane, per effetto della famigerata riforma Fornero, che è quella di una pensione intorno ai 250–300 euro al mese, percepiamo il sapore  di una netta ingiustizia sociale. La mancanza della proprietà fondiaria priva l’agricoltore di quella riserva economica che avrebbe dovuto garantirgli una vecchiaia dignitosa.

Le politiche della Pac offrono degli incentivi per i giovani agricoltori. Le reputa misure efficaci?

La Pac prevede innanzitutto un premio base maggiorato per i giovani agricoltori, un premio di primo insediamento che può arrivare fino a 100 mila euro, ma non tutte le Regioni prevedono questo massimale, infine un’integrazione per gli investimenti. Tuttavia, questi strumenti sono strutturati attorno alla dimensione fisica dell’azienda e premiano principalmente la superficie posseduta, trascurando il reale potenziale imprenditoriale. Avremmo potuto pensare a un approccio più flessibile – come una flat rate – che facilitasse l’ingresso dei giovani senza imporre limiti basati esclusivamente sulla grandezza dell’azienda.

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Come ha visto evolvere in questi anni il settore agricolo e quali reputa gli elementi indispensabili per creare un’impresa agricola contemporanea?

Siamo passati dall’agricoltura ad alta intensità di lavoro a quella ad alta intensità di capitale, l’agricoltura sta evolvendo verso un modello ad alta intensità di conoscenza. Non basta più saper lavorare la terra. Oggi è essenziale avere competenze finanziarie, organizzative e sociali. L’innovazione non riguarda solo l’introduzione di tecnologie come la robotica, ma anche l’adozione di nuovi modelli di business e la capacità di adattarsi ai cambiamenti climatici e alle mutate esigenze dei consumatori, quando ad esempio chiedono meno carne o meno grassi. In questo contesto, le conoscenze tradizionali – pur restando fondamentali – non sono più sufficienti: servono nuove competenze che permettano di pianificare un’impresa agricola solida e sostenibile. Infine queste competenze vanno ampliate attraverso la partecipazione a organizzazioni più ampie, che  possano rappresentare una sorta di intelligenza collettiva, perché da soli penso non si vada da nessuna parte. 

Una volta creata l’impresa agricola, si tratta poi di tenerla in vita. Molte imprese nascono e muoiono in un arco breve di tempo. Perché? 

In effetti non è soltanto un problema di insediamento. Il secondo tema è la permanenza dei giovani in agricoltura.  Questi due anelli devono assolutamente convivere ed essere entrambi supportati. Questo è in parte previsto, per esempio, nelle ottime misure che riguardano il Knowledge Innovation System introdotto nella nuova Pac, superando la precedente misura della Consulenza, che noi di Agia-Cia reputiamo una straordinaria occasione. Peccato che in Italia il sistema della consulenza sia stata fatta partire per ultima all’interno della programmazione 2014-2020, quando avrebbe dovuto avere la priorità al fine di guidare all’utilizzo delle risorse del PSR. In sostanza io non vedo dei problemi europei, ma un insieme di problemi nazionali.

Ciò nonostante nascono e durano imprese create e gestite da giovani. Come ce l’hanno fatta?

La Politica agricola comune è andata a beneficio soprattutto degli storici. Questo ha costretto tantissimi nuovi agricoltori a doversi inventare qualcosa. Quello che era un vincolo, con aiuti ridotti, è diventato per molti un’opportunità e abbiamo tantissime bellissime esperienze di giovani che effettivamente hanno innestato la marcia dell’impresa. Dal mio punto di vista, più che focalizzarsi sull’aiuto bisogna preoccuparsi del business e in quali mercati ci si vuole inserire. Bisogna partire da una solida visione imprenditoriale. L’innovazione e la capacità di definire un business plan realistico sono indispensabili, mentre l’aiuto esterno può potenziare un’attività già ben avviata, ma non deve costituire il fondamento del progetto. Bisogna saper

spaziare il più possibile e, come si diceva un tempo, anche per l’agricoltura il vero sogno è avere “l’immaginazione al potere”.

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