invertiamo il flusso e colpiremo Trump


Ispirata dai rapporti Letta e Draghi, il 19 marzo la Commissione europea ha prodotto un nuovo documento programmatico, “L’Unione del risparmio e dell’investimento”, della Saving and Investments Union, in sigla Siu, che segue dappresso quello del 29 gennaio sulla “Bussola della competitività”. Il documento ambisce a presentare «una strategia per dare impulso alla ricchezza dei cittadini e alla competitività economica dell’Unione europea».

Sovrabbondanza di risparmio

Come è noto, uno dei punti “caldi” del rapporto di Draghi concerne l’insufficienza di investimenti europei, pubblici e privati, nei settori strategici delle tecnologie dell’informazione, conoscenza e comunicazione, rispetto ai due leader mondiali, Stati Uniti e Cina.

Microcredito

per le aziende

 

Draghi sottolinea, specularmente, la sovrabbondanza di risparmio dei cittadini europei. Il nuovo documento della Commissione avanza una serie di proposte per mettere la proverbiale parsimonia di noi europei al servizio di maggiori investimenti a casa nostra. La Siu «mira a migliorare il modo in cui il sistema finanziario dell’Unione europea incanala i risparmi verso investimenti produttivi, creando una gamma più ampia di opportunità finanziarie per le persone e le imprese, in particolare le imprese sostenibili». Dispiace dover dire che siamo sempre al punto di partenza: un ripetitivo elenco di buone intenzioni, pochi numeri a sostegno dell’analisi, qualche proposta tecnica utile e l’eterna speranza che “il mercato farà il suo corso”. Ma finché non si affrontano i veri nodi strutturali tutto rischia di restare lettera morta.

Cominciamo dalla diagnosi del risparmio sovrabbondante. Quella di Draghi ha il pregio di ricordare, in base ai fondamentali dell’analisi macroeconomica, che l’eccesso del risparmio rispetto all’investimento totale (S > I come si legge nei manuali di macroeconomia) è lo specchio di due fatti: l’economia dell’Unione europea produce più di quello che consuma, ed esporta più di quello che importa. Questi fatti, che si traducono nella formula del risparmio superiore all’investimento, sono il risultato di come è stata concepita, costruita e governata l’economia dell’Unione europea, sotto la leadership dei paesi manifatturieri ed esportatori per vocazione (sopra a tutti la Germania, ma poi anche l’Italia, la Francia, i Paesi Bassi).

Il risparmio inerte

Nel documento della Commissione questi fatti sono menzionati en passant. Invece si sostiene che il risparmio europeo non solo è sovrabbondante, ma è anche inerte: «Circa 10mila miliardi di risparmi al dettaglio sono al momento detenuti in depositi bancari». Quale sarebbe il problema? Che i depositi bancari rendono poco, e non sono impiegati direttamente dai risparmiatori per finanziare investimenti produttivi. Questa visione del sistema finanziario è sconcertante. Credevamo che tutti, anche a Bruxelles, avessero capito che nella finanza moderna le banche svolgono due funzioni fondamentali: trasformano i depositi sicuri in prestiti rischiosi, e possono creare di loro iniziativa prestiti rischiosi creando depositi sicuri. Se c’è qualcosa che non funziona nel finanziamento degli investimenti, non sta nelle scelte di portafoglio delle famiglie, ma nel sistema complessivo degli intermediari e del mercato dei capitali.

In effetti è da dieci anni che si parla della madre di tutte le riforme, la Capital Market Union, in sigla Cmu. Cosa abbiamo ottenuto? Poco o nulla, per la consueta ragione: la sfiducia dei governi dei paesi (presunti) forti finanziariamente a mischiarsi con quelli (presunti) deboli. Ora la Commissione rilancia con una nuova etichetta, più rassicurante (“risparmio” suona meglio di “capital market”), ma la narrativa resta invariata, una diagnosi sbagliata per un problema vero.

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Oltre ai fatti macroeconomici fondamentali collegati a S > I, cioè alla formula in cui il risparmio è superiore agli investimenti, ce n’è un altro: l’esportazione netta di capitali. Secondo il rapporto Draghi, il risparmio degli europei è sovrabbondante ma non è affatto inerte. Ogni anno lasciano l’Unione europea tra i 300 e i 400 miliardi di euro in cerca di rendimenti migliori.

Il risparmio vola all’estero

In tutto questo, pochi sembrano notare che Trump ha dichiarato la guerra mondiale dei dazi per azzerare il disavanzo commerciale degli Stati Uniti, picconando vari totem e tabù della globalizzazione, ma senza un accenno a quello della libertà dei movimenti di capitale. Questa resta intoccabile. Perché? Perché il disavanzo commerciale Usa nell’assetto macroeconomico è esattamente speculare a quello dell’Unione europea: per gli Usa da tempo si ha S < I, ovvero i risparmi sono inferiori agli investimenti, cioè un eccesso di spesa nazionale sulla produzione e conseguente importazioni di capitali. Bene ha fatto Alessandro Penati, su queste colonne, a sottolineare che proprio questo è il punto debole non solo della politica economica, ma anche della politica di potenza di Trump.

Il punto debole di Trump

Le importazioni di capitali sono debiti, e oggi gli Stati Uniti hanno debiti col resto del mondo che arrivano all’80 per cento del Pil. Quindi per il trumpismo è vitale che i capitali continuino a muoversi liberamente da Est a Ovest, per noi no.

La Commissione per risolvere il problema europeo, riassumibile in S > I, propone di fluidificare il mercato dei capitali europeo e spostare un po’ di risparmi dai depositi agli strumenti d’investimento. Naturalmente, un mercato dei capitali europeo, con intermediari, regole e vigilanza a livello continentale, è utilissimo e anzi necessario per arrivare a una vera condivisione (e quindi riduzione) dei rischi finanziari. Lo si sa e lo si dice da quando il sistema finanziario europeo andò a gambe all’aria in seguito alla crisi finanziaria mondiale. Quindi ben venga. Ma la Capital Market Union (o Saving and Investments Union che la si voglia chiamare) non è la risposta al problema cruciale che oggi l’Europa deve affrontare.

Il punto debole dell’Europa

C’è da chiedersi, infatti: se a ostacolare gli investimenti innovativi in Europa fosse davvero solo un problema di armonizzazione e di vigilanza, perché i capitali vanno verso mercati con i quali non solo non siamo armonizzati, ma che presentano rischi maggiori, a partire da quello di cambio? E allora il punto critico non sta tanto nella struttura dell’offerta di fondi, ma anche nella domanda e negli impieghi da parte delle imprese, che riflettono la nostra politica macroeconomica e la dinamica del mercato unico dei beni e, soprattutto, dei servizi che, in quest’ultimo caso, non è ancora veramente unico e che, privo di guida, non è riuscito a portare il nostro sistema produttivo sulla frontiera della tecnologia.

Non va dimenticato, inoltre, che il maggior rendimento degli investimenti negli Usa è anche frutto del potere monopolistico conquistato in quel paese dalle grandi corporation, specie nell’ambito dell’alta tecnologia.

Ridurre gli investimenti in Usa

A questo non si dovrebbe rispondere lasciando crescere il potere di monopolio per aumentare i rendimenti anche in Europa, ma cercando modi per mettere della sabbia nei meccanismi che consentono i movimenti dei capitali, soprattutto verso gli Usa. E, certamente, questa risposta (da maneggiare con estrema cura, visto il suo potenziale deflagrante) sarebbe resa più robusta e sostenibile proprio dalla Capital Market Union europea.

Che un debitore compulsivo riesca a imporre le proprie regole del gioco, senza che i creditori nemmeno concepiscano alcuna “autonomia strategica”, tanto cara alla presidente von der Leyen, della fonte energetica fondamentale del capitalismo moderno, questo sì è un grosso colpo da mago degli affari.

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