I dazi di Trump non fanno paura alle imprese lombarde 

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Un’indagine di Promos tra le imprese che esportano negli Usa (per 14 miliardi) e la prudenza di Assolombarda: “Gli Stati Uniti sono e devono restare un partner chiave”, ma abbiamo bisogno di un’Europa forte e lungimirante


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La congiuntura per il mondo dell’impresa lombarda non è dei migliori: dopo la crisi che ha colpito la Germania, ci sono costi stratosferici dell’energia e ora la “minaccia” all’export della neonata amministrazione Trump, che si è già fatta concreta. E le prime reazioni sono preoccupate. “I dazi dovrebbero essere imposti come ultima risposta per combattere fenomeni di concorrenza sleale”, afferma Alessandro Spada, presidente di Assolombarda. “Non è questo il caso. Diversamente, sono una minaccia al libero mercato. Il nostro è un territorio fortemente votato all’export. A livello lombardo, parliamo di 14,2 miliardi di euro di esportazioni verso gli Usa, una cifra quasi raddoppiata negli ultimi 10 anni e che vale l’8,7 per cento del totale export regionale. Se guardiamo ai territori raccolti in Assolombarda, gli Usa sono in assoluto il primo partner commerciale, con 7,8 miliardi di export nel 2023. Il rischio, quindi, è di minare ulteriormente la competitività delle nostre imprese, che già devono fronteggiare alti costi dell’energia e le ricadute della crisi tedesca, soprattutto nel settore automotive”.

Ma Spada non getta la spugna: “Gli Stati Uniti sono e devono restare un partner chiave per le nostre imprese. L’asse transatlantico, di cui noi come italiani e come europei siamo parte, va rafforzato. Perché questo accada dobbiamo mettere al centro dell’agenda europea temi strategici come la politica industriale e la difesa comune. Oggi abbiamo più che mai bisogno di un’Europa forte, coraggiosa e lungimirante che si comporti come una potenza politica, economica, industriale”.

C’è chi si prepara a resistere e chi non si fascia la testa prima di essersela rotta. Promos, l’Agenzia delle Camere di commercio per l’Internazionalizzazione delle imprese, ha condotto un’indagine su un centinaio di imprese che già operano negli Stati Uniti per capire l’impatto che prevedono possa avere la presidenza Trump sul loro business negli Usa. E una buona metà non ha timori incombenti. La ricerca dice che la maggior parte delle imprese (34,2 per cento) ritiene che il clima economico internazionale, attualmente, non sia “né particolarmente favorevole né particolarmente sfavorevole”. Il 32,9 considera, invece, il contesto “abbastanza favorevole”, indicando un quadro complessivamente positivo per l’export italiano. Tuttavia, alcune aziende (19 per cento), segnalano preoccupazioni legate a possibili misure protezionistiche su specifici settori. La fiducia generale si basa sulla percezione di un’economia americana robusta e sulla solidità dei rapporti commerciali esistenti. Per il 59,5 per cento delle imprese indagate la principale preoccupazione è un aumento delle barriere doganali e tariffarie su prodotti agroalimentari, tessili e macchinari. Questi settori, fondamentali per l’export italiano, percepiscono un possibile rischio.

Al contrario, il 21,5 per cento non segnala particolari timori, attribuendo maggiore peso a dinamiche interne o a strategie di diversificazione già avviate. Il 45,6 per cento delle imprese ritiene che la nuova amministrazione non influirà sulle loro strategie, mentre il 22,8 per cento considera di poter fare possibili aggiustamenti per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. Tra le strategie principali emergono l’espansione verso mercati come il Sudest asiatico e l’Africa, l’incremento di investimenti in e-commerce per raggiungere clienti finali in mercati diversificati, e lo sviluppo di partnership con aziende locali in Europa per rafforzare le filiere produttive e commerciali. “Comunque fino al 2026, dalle informazioni che abbiamo, i dazi non sono implementabili”, conferma Bruno Bettelli, presidente Federmacchine: “La cifra in esame varia dai 4 ai 7 miliardi (per il settore, ndr) e potrebbe essere recuperata dall’accordo Mercosur destinando i prodotti ad altre aree geografiche che invece potrebbero facilitare l’ingresso dei nostri prodotti. Siamo preoccupati ma ci vuole molta riflessione, anche perché potrebbe non essere conveniente per gli Stati Uniti che non sono ancora pronti. In alcuni settori il bene strumentale italiano è unico: negli Usa non sono in grado ad esempio di produrre ceramica, che ad oggi è appannaggio di Italia e Cina”. Tra le misure più richieste per ampliare il business negli Usa – conclude la ricerca – emergono il supporto nella ricerca di nuovi partner e l’organizzazione di missioni commerciali. “Dall’indagine emerge che gli allarmismi degli ultimi mesi sulle relazioni commerciali con gli Usa sono eccessivi” spiega Giovanni Da Pozzo, presidente di Promos Italia. Ma “l’attuale complesso contesto geopolitico suggerisce comunque di diversificare i mercati di destinazione”
 





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