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Inquadramento normativo e problematica giuridica
L’utilizzo sempre più diffuso di strumenti di sottoscrizione digitale comporta necessariamente l’insorgere di problematiche sino a poco fa confinate al mondo analogico, prima fra tutte quella dell’attribuzione della paternità dei documenti informatici sottoscritti con firma digitale. Come noto, la disciplina normativa di riferimento è contenuta nel Codice dell’Amministrazione Digitale (d. lgs. n. 82/2005), che all’art. 20, comma 1-bis, prevede in particolare che “il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile quando vi è apposta una firma digitale“. Il successivo comma 1-ter prevede invece significativamente che “l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare di firma elettronica, salvo che questi dia prova contraria”.
Partendo da tali disposizioni normative e grazie ad alcune recenti pronunce di merito (e a una risalente di cui si dirà oltre) è possibile delineare un quadro abbastanza preciso delle possibili azioni che possono essere avviate laddove una parte affermi che una firma digitale sia stata apposta senza il suo consenso e a sua insaputa.
La querela di falso avverso il documento informatico: Tribunale di Termini Imerese, sentenza n. 53/2021
È innanzitutto interessante analizzare la sentenza n. 53 del 20 gennaio ’21 del Tribunale di Termini Imerese che ha deciso un contenzioso avviato con la proposizione di una querela di falso avverso due contratti di cessione di quote societarie, sottoscritti digitalmente e muniti di marcatura temporale in data 12 settembre 2009, che si sosteneva essere stati firmati da un soggetto in condizioni di incapacità.
La peculiarità della fattispecie risiede nella circostanza che, alla data della presunta sottoscrizione, il cedente (successivamente deceduto) si trovava ricoverato in una struttura sanitaria in condizioni incompatibili con l’apposizione della firma digitale nel luogo indicato dalle scritture negoziali (la sede delle società).
Principio di diritto enunciato
Il Tribunale ha preliminarmente affrontato la questione dell’ammissibilità della querela di falso avverso documenti informatici firmati digitalmente, richiamando e dichiarando applicabile il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “alla parte cui sia riferita una scrittura privata è sempre consentito non solo di disconoscerla, […] ma anche di proporre alternativamente la querela di falso, al fine di negare definitivamente la genuinità del documento” (Cass., sez. VI-I, ord. n. 15823/2020).
Quanto al merito, il Tribunale ha accolto la querela di falso, ritenendo provata la non riconducibilità della firma digitale al suo titolare sulla base di elementi fattuali incontrovertibili, essendo in particolare la dimostrata impossibilità fisica del soggetto di trovarsi nel luogo dichiarato per la sottoscrizione. In conseguenza di ciò il giudicante ha dichiarato non riferibili al cedente le firme digitali apposte sui contratti di cessione, ordinandone la cancellazione ai sensi dell’art. 537 c.p.p.
Rilevanza della pronuncia
La sentenza assume particolare rilievo in quanto riconosce l’operatività della querela di falso quale strumento processuale idoneo a superare la presunzione di riconducibilità della firma digitale al suo titolare, presunzione prevista dall’art. 21, comma 1-ter, CAD. Tale conclusione conferma che, nonostante la peculiare natura del documento informatico firmato digitalmente, rimane ferma la possibilità di contestarne l’autenticità mediante il procedimento di cui agli artt. 221 ss. c.p.c., con effetti erga omnes.
Il disconoscimento della firma digitale nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo: Tribunale di Palermo, sentenza n. 15743/2020
Il Tribunale di Palermo, con un recente sentenza del 5 febbraio 2024, ha affrontato il tema del disconoscimento della firma digitale nell’ambito di un’opposizione a decreto ingiuntivo. Nel caso di specie, due opponenti (debitore principale e fideiussore) contestavano la riconducibilità alle proprie persone delle firme digitali apposte, rispettivamente, su un contratto di finanziamento e su una lettera di fideiussione.
Onere probatorio e presunzione legale
Il Giudice palermitano ha incentrato la propria analisi sul riparto dell’onere della prova, richiamando anch’egli il disposto dell’art. 20, comma 1-ter, CAD e chiarendo che, a differenza di quanto avviene con il disconoscimento delle scritture private ex art. 214 c.p.c., in caso di contestazione della firma digitale opera un’inversione dell’onere probatorio stante che “colui che intende disconoscere la propria firma digitale ha l’onere di provare che il dispositivo di firma non gli appartiene ovvero che tale dispositivo è stato utilizzato non da lui, e contro la sua volontà“.
Nel caso specifico si è però ritenuto che gli opponenti non avessero assolto tale onere probatorio, limitandosi a contestazioni generiche senza fornire elementi idonei a dimostrare l’utilizzo abusivo del dispositivo di firma digitale. La mera asserzione di non aver mai rilasciato la firma digitale è stata ritenuta insufficiente a superare la presunzione legale, anche perché risultavano elementi probatori in senso contrario dai quali si evinceva che essi avevano dato parziale esecuzione ai contratti che contestavano.
Considerazioni conclusive
L’analisi comparata delle due sentenze conferma come la questione del disconoscimento della firma digitale possa essere affrontata attraverso due diversi strumenti processuali: la querela di falso e il disconoscimento nell’ambito di un giudizio ordinario o di opposizione.
La differenza tra i due strumenti processuali è che nel primo caso l’accertamento della falsità produce effetti erga omnes, con rimozione definitiva del valore probatorio del documento, nel secondo caso l’effetto è limitato al singolo processo. Tale differenza non incide, tuttavia, sul riparto dell’onere probatorio, che in entrambi i casi grava sulla parte che contesta la riconducibilità della firma digitale.
Un elemento di sostanziale convergenza tra le pronunce è rappresentato dal rigoroso standard probatorio richiesto per superare la presunzione di riconducibilità della firma digitale al suo titolare; in entrambi i precedenti si afferma che non è sufficiente una contestazione generica o un semplice disconoscimento.
Appare così superato l’orientamento espresso da precedente giurisprudenza (Trib. Roma, 23 gennaio ’17, n. 1127) secondo la quale la prova contraria volta al superamento delle presunzioni di cui all’20, comma 1-ter, CAD poteva essere data con ogni mezzo, anche con prove testimoniali. Questo precedente era stato invero criticato dalla dottrina perché di fatto rendeva assai poco sicuro l’utilizzo della firma digitale, ponendo standard probatori assai inferiori a quelli previsti per il disconoscimento di una sottoscrizione analogica.
L’evoluzione giurisprudenziale va quindi salutata con favore: l’introduzione di un regime probatorio più rigoroso è certamente in linea con le disposizioni del codice dell’amministrazione digitale e con la sicurezza ed affidamento che deve trasmettere l’utilizzo di una firma digitale.
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