Tommaso Rondinella, Banca Etica: «Il ruolo sociale dell’impresa non è una moda»

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Banca Etica è una banca popolare cooperativa che nasce alla fine degli Anni 90 sulla spinta di diverse grandi organizzazioni del Terzo Settore italiano, in una fase in cui queste erano tendenzialmente escluse dall’accesso al credito. Allo stesso tempo, il nascente istituto di credito dava risposta all’esigenza di costruire un ambiente finanziario esplicitamente diverso da quello generatosi con la globalizzazione e le regolamentazioni che avevano favorito la speculazione e i paradisi fiscali: «Si può fare finanza in maniera diversa, giusta, per la pace e per la solidarietà».

Tommaso Rondinella, Banca Etica

Tommaso Rondinella, responsabile ufficio modelli di impatto e Vsa di Banca Etica, ripercorre nella nuova puntata di ALTIS Incontra la storia di questa organizzazione finanziaria a vocazione sociale. Lo incontriamo a margine della lezione che ha tenuto al Master in Finanza e Investimenti ESG.

Da quel grande crowdfunding di 25 anni fa del Terzo Settore, si è arrivati a costituire una vera e propria banca vigilata dalla Banca d’Italia che offre tutti i servizi commerciali tipici delle banche. Com’è strutturata oggi?
Oggi Banca Etica è un gruppo, di cui fanno parte, oltre alla Banca, Etica SGR, la società di gestione del risparmio che promuove fondi di investimento etici, ossia che investono con stringenti criteri di natura sociale ed ambientale. Fanno parte del gruppo anche Cresud, una società di finanziamento di istituzioni di microfinanza nel sud del mondo e la Fondazione Banca Etica.

Ma c’è anche un nuovo ingresso.
Siamo in fase di acquisizione di una quota maggioritaria di Impact SGR, una realtà estremamente attenta agli aspetti sociali e ambientali, che propone fondi di investimento attenti alla misurazione degli impatti.

Quello che colpisce della vostra organizzazione è anche il modello partecipativo.
Da quel movimento inziale nasce una base associativa estremamente attiva e partecipativa. Banca Etica funziona, infatti, con il principio di una testa un voto. Tutti i soci hanno diritto di voto a prescindere dalla quantità di azioni che detengono del capitale sociale. Questo permette una partecipazione molto diffusa, favorita anche dal fatto che esiste un vincolo di concentrazione del capitale non superiore all’1%, per ciascun socio.

Chi sono i partecipanti di questa base associativa?
È fatta di persone che promuovono la finanza etica nei territori – organizzati in Gruppi di iniziativa territoriale strutturati a livello provinciale o regionale – e partecipano alle decisioni sui finanziamenti. 

Come funziona questo percorso?
C’è un gruppo di circa 200 soci volontari che sono valutatori sociali. Esprimono cioè un parere sulla finanziabilità delle organizzazioni che chiedono un finanziamento, non rispetto al merito creditizio ma sulla base del loro profilo etico, in modo da poter esercitare una forma di controllo da parte della base associativa di ciò che la banca effettivamente finanzia.

Come fate a integrare concretamente l’ottica sociale nella valutazione finanziaria?
Il nostro sistema di valutazione socio ambientale è basato su un questionario digitale  che le organizzazioni e imprese che chiedono un finanziamento devono compilare e che poi viene analizzato dai valutatori sociali. Si tratta di una serie di domande di natura quantitativa sulle caratteristiche ambientali, sociali e di governance dell’organizzazione e del progetto per cui viene richiesto il finanziamento. La valutazione avviene sia dal punto di vista del profilo di responsabilità delle imprese, sia degli impatti che generano. 

Questi dati confluiscono nel report di impatto?
È uno strumento che consideriamo molto caratterizzante della nostra attività, nel quale rendicontiamo in termini di impatto tutto l’attivo della banca. Normalmente, i report di impatto di altri istituti di credito descrivono gli impatti di alcune parti dei finanziamenti erogati, ad esempio quelli per il Terzo Settore. Noi abbiamo cercato di rappresentare in termini di impatto tutto l’uso del denaro che raccogliamo e utilizziamo per le persone giuridiche, le persone fisiche e i fondi gestione dei titoli. 

Il metodo ha più valore del merito?
È prima di tutto un esercizio di trasparenza. Al di là di numeri più o meno grandi che vengono rendicontati – che riguardano ad esempio le persone assistite, i migranti accolti, i posti di lavoro creati le imprese create con i beni confiscati alle mafie, a testimonianza del nostro impegno su questi fronti – è molto importante l’aver individuato un metodo che vale per tutta l’attività, non solo per una sua parte.

Come gestite internamente i dati sull’impatto?
Con strumenti di analisi di impact management per la valutazione dei rating ESG, utili sia per capire il profilo di responsabilità della clientela sia il rischio finanziario. Sono due aspetti diversi che non sempre vanno di pari passo.

In che senso?
Da un lato, si osserva la capacità dell’organizzazione di realizzare certi progetti, dall’altro occorre analizzare le ripercussioni sul rischio e quindi sui tassi di interesse applicabili dal punto di vista bancario.

Tra i vostri strumenti di valutazione, voi avete creato lo Iaf – Impact appetite framework, che affianca lo strumento obbligatorio sui rischi, il Raf – Risk appetite framework.
È un set di circa trenta indicatori di impatto sociale ambientale che fanno riferimento agli obiettivi da raggiungere sia nell’azione esterna, sia internamente all’organizzazione. Trimestralmente, il Cda della Banca analizza la situazione per verificare le ragioni degli eventuali scostamenti e l’adozione delle misure di correzione. Sono utili per tenere costantemente orientata l’operatività alla mission.

Report di impatto Banca Etica 2

Abbiamo accennato al legame tra i fattori ESG e il rischio di credito…
La risposta “stretta” è che, nel momento in cui le istituzioni finanziarie si rendono conto che l’informazione ESG è rilevante per valutare i rischi finanziari, non avranno più motivo per smettere di chiedere ai clienti quel tipo di rendicontazione. Ma il discorso è ovviamente molto più ampio.

Prego.
Il tema della sostenibilità e del ruolo dell’impresa nella società non è una moda passeggera. Negli anni sono cambiati i termini e i concetti ed è cresciuta anche la sensibilità in merito. Oggi, invece, qualcuno parla di backlash contro gli Esg. 

Cosa dobbiamo aspettarci?
Penso sia utile ricordare che, da Adam Smith allo storico caso Olivetti, fino alla cultura della corporate social responsibility, agli SDGs e, ora, agli ESG, si è sempre parlato del fatto che l’impresa abbia un ruolo sociale. Perciò questa evidenza non sparisce da un momento all’altro, anche al di là delle normative. È una sensibilità che esiste e continuerà a esistere nella società, magari con andamenti ondivaghi, ma non l’abbandoneremo del tutto proprio perché viene da lontano ed è connaturata al significato stesso dell’economia. 

Le normative un po’ pressanti hanno innescato l’effetto backlash?
Negli ultimi anni l’attenzione agli ESG si è rafforzata al punto da essere entrata pesantemente nelle normative, in particolare quelle europee. Ma bisogna ricordare che anche in assenza delle normative si erano consolidati nel tempo gli standard GRI e SASB, come spinta della società stessa e del riconoscimento che se l’impresa funziona è importante anche essere consapevoli di come funziona, quindi studiarla dall’interno diventa cruciale. 

Qual è il vostro punto di vista in merito?
Per noi, oltre al fatto di promuovere un’economia fatta di valori e non solo di utili, poter vedere come funzionano le organizzazioni è cruciale per capire se sono finanziabili, se sono dei partner affidabili anche dal punto di vista finanziario. 

Chiudiamo con un esempio.
Un paper della Banca d’Italia di qualche anno mostrava come i modelli di analisi del rischio, cioè della cosiddetta probabilità di default di un di un cliente, funzionino male o non funzionino nel caso del Terzo Settore. 

Perché?
Perché questi modelli sono basati su informazione di carattere economico finanziario, mentre il Terzo Settore tipicamente non è patrimonializzato, non ha grossi capitali di supporto, per definizione non fa utili. Secondo quei modelli, dunque, il Terzo Settore non dovrebbe essere finanziabile e, in effetti, così è accaduto per molto tempo. Quello che sappiamo è che il Terzo Settore è resiliente ed è capace di restituire i prestiti che riceve, perché le motivazioni che portano alla buona performance di un’organizzazione senza scopo di lucro sono diverse da quelle che si leggono nei bilanci. Sono l’appartenenza a reti, la capacità di dare risposte ai bisogni della società, la reputazione che hanno, la qualità del personale e la motivazione. Sono tutti fattori intangibles che si colgono con più chiarezza dalle analisi di carattere non finanziario e dai fattori ESG.

Cosa ci fa capire questo?
La necessità capire le organizzazioni dall’interno, al di là dei dati di bilancio, diventa in tutti i casi rilevante. L’azienda non è fatta solo di numeri, ma di processi e di attenzione a svariate dinamiche. Le organizzazioni che non sono in grado di misurare e rendicontare questi aspetti hanno al loro interno fenomeni che non stanno mappando e governando e che rappresentano elementi di possibili fragilità. L’organizzazione che rendiconta è consapevole del suo funzionamento e, in questo senso, molto più affidabile.





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