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La moda vive uno dei suoi momenti Margiela. A Parigi, la più grande asta mai dedicata al fondatore Martin Margiela, dall’archivio delle sorelle Picozzi, fa scompiglio battendo i record; il giorno dell’inaugurazione, compare un incenso al patchouli e, per qualcuno, è subito il segno della proverbiale non-presenza di Martin che si è presentato in incognito. Credere o non credere, siamo davanti a una fede laica, tanto che scrittori e compratori si uniscono in un «così sia» quando, nei giorni della couture, arriva l’annuncio che sarà Glenn Martens a succedere a John Galliano alla guida del brand capitano Maison Margiela. Ma si deve riavvolgere il nastro e tornare all’inizio del mese, a Pitti, dove questa storia prende il via, per farsi portavoce di un altro momentum: la prima sfilata maschile di MM6 Maison Margiela, il marchio dell’universo in bianco, oggi di proprietà della Otb di Renzo Rosso, che più guarda alla pratica del maestro belga che lo ha forgiato.
MM6 è guidato, nello spirito del Godot della moda, da una squadra di creativi in camice immacolato, che chiede l’anonimato. Quando la incontriamo, nel brulicante backstage nella serra del Tepidarium del Roster, è circondata da personaggi allampanati. «È il cast a comunicarci qualcosa. Quando perdiamo il controllo, diventa umano: bisogna lasciare andare le cose, a un certo punto. E questo non si sposa mai con un’unica rappresentazione, esattamente come da noi ci sono tutte le voci dei tanti membri del team», spiega uno di loro. Si allontana, individua un modello, gli toglie un guanto biker «un po’ modulare, un po’ funzionale, con vibrazioni un po’ spaventose», quindi lo rimette. Il look è chiuso e chi lo porta ha un atteggiamento opposto all’aperta sprezzatura che si aggira in piazza della Signoria, nei giorni della fiera. MM6 fa le cose al contrario.
«Se non è rilevante, a chi importa? La moda non è bellezza o sola arte. È più un’industria di servizi», team MM6 Maison Margiela «Qui, ci sono un senso di stravaganza, un codice, un sacco di esposizione e noi siamo dei fuorilegge. Ma è il bello del gioco degli underdog: come far capire alla gente ciò che facciamo?», annuisce convinto il nostro interlocutore. Il dietro alle quinte è striminzito e gli spazi si fanno ancor più schiacciati mentre il caos del pre-sfilata si gonfia inghiottendo tutto, sole compreso. Mantengono il sorriso: «È grandioso perché non siamo nella bolla della moda, ma immersi nella storia, dove tutto scorre lento e tranquillo». Sotto ai vetri in stile liberty, cala la notte e lungo il perimetro, si alza uno stage da concerto indie rock abbagliato dai riflettori; la sfilata si guarda da sotto, in piedi, come improvvisate, attempate, scomode groupie.
Nessuno è mai completamente a suo agio tra i contrasti o con Margiela, che nel 2006 aveva tinto Pitti di bianco. Ora, naturalmente, MM6 Maison Margiela sceglie il nero e le sue sfumature. «Bisogna contraddirsi, imbastire una tensione», raccontano, mentre precisano perché sono dove sono: «L’uomo di MM6 nasce tre anni fa, anche se la casa ha un forte know-how nella categoria. Questa è un’opportunità per studiarne l’identità: separando il maschile dalla controparte femminile, l’equilibrio si sposta».
Il tema diventa cosa non presentare. «Con lo sconfinato lavoro di Martin, sarebbe facile rifare tutte le hit in un pastiche, metterle sul piedistallo a mo’ di reliquie. Ma noi odiamo la nostalgia: se pensate che 20 anni fa i club fossero molto più fighi è perché non frequentate più i posti giusti. Così riprendiamo le cose solo quando sono di nuovo rilevanti, senza toccarle troppo, adattandole al momento. Ci sono sempre dei momenti». Rilevante è una parola come un mantra, da queste parti: «Pitti ci ha permesso di chiederci fino a che punto spingere la giacca in lino – ricoperta con plastica e gomma, ndr –, rimanendo rilevanti nel contesto: se non è rilevante, a chi importa? Non si tratta di bellezza, di vanità oppure arte. Bisogna discutere con il pubblico, siamo un’industria di servizi, senza gli altri non siamo nulla».
Rilevante è anche Miles Davis, trombettista jazz. «È stato così Margiela», si lasciano sfuggire. «Abbiamo lavorato sulle texture per ottenere un’atmosfera drammatica nell’uomo. Miles aveva capito il potere del look: c’è il Miles in completo, il Miles tirato a lucido, il Miles dalle mise follemente strambe e incredibilmente moderne». Il fashion industry non considera il jazz un orizzonte cool, va detto, ma questo non fa che aggiungere interesse, rifuggendo «idee masticate, noiose, fuochi di paglia. Perché inseguire qualcosa che non esiste?». E non è nemmeno questione di storytelling. «Bisogna creare qualcosa di reale, è un sogno quando ci dicono che siamo approcciabili», chiosano. «Abbiamo sempre dovuto indagare come riferirci al lavoro di Martin e come stare assieme a quello decennale di John per Maison Margiela. Vogliamo essere diversi non tanto per distinguerci, ma perché abbiamo ruoli differenti: possiamo riprendere idee simili, ma ognuno per la sua strada. Da MM6 siamo immediati, relazionabili. Progettiamo abiti non narrativi su cui le persone proiettino la propria poesia. Il nostro non è ready-to-wear, è ready-when-worn, pronto quando viene indossato».
E se qualcuno non ci vede Miles Davis? «Che importa. Se ci trovi tua nonna nel bomber di pelliccia finta e sentimenti veri, è ok: non possiamo dirigere i ricordi, né il luogo da cui provengono. E siamo risolti così».
L’intervista è tratta dall’Esky Report di Esquire Italia n.39, Marzo 2025.
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