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Milano Finanza: Hippocrates e Pharma Green rinviano di un anno il riassetto societario #finsubito prestito immediato


Ci vorrà ancora un anno circa per l’uscita di Antin Infrastructures Partners da Hippocrates, la società cui fa capo Lafarmaciapunto. Nel luglio scorso, un articolo del Sole 24 Ore firmato da Carlo Festa aveva dato il fondo di private equity (che detiene l’80% della holding) in partenza per la fine dell’anno, al massimo inizi del nuovo. Nei giorni scorsi, invece, un servizio di un altro quotidiano economico, Milano Finanza, rivela che il divorzio sarebbe stato rinviato di un anno circa, cioè fine 2025-primi del 2026, per dare tempo a Hippocrates di «sistemare i dati finanziari e riuscire a ottenere una valorizzazione congrua degli asset». In particolare, gli azionisti si attendono miglioramenti significativi nella crescita dell’ebitda, per incrementare ulteriormente il valore di una società che nel 2021 valeva circa 700 milioni di euro e oggi detiene circa 500 farmacie di proprietà.

Nella stessa situazione, sempre secondo Milano Finanza, si troverebbe anche un’altra catena del capitale, Alma Farmacie di Pharma Green Holding: qui l’investitore di riferimento è la società di financial advisory CC&Soci dell’ex banchiere milanese Claudio Costamagna, attorno alla quale si sono raccolti alcuni family office (Recordati, Alessandri, Pellicioli) e gruppi come Unipolsai, Ferragamo, l’Erbolario. Anche in questo caso, l’estate scorsa erano circolate voci di una prossima uscita del socio di riferimento, per naturale scadenza dell’operazione finanziaria. Tutto rinviato di dodici mesi, scrive Milano Finanza, nei quali Pharma Green Holding continuerà a comprare farmacie (il target iniziale era di 70 punti vendita, in carniere a oggi ce ne sono 50) per procedere alla valorizzazione (e quindi la vendita delle quote di almeno una parte dei soci) all’inizio 2026.

In effetti le notizie che arrivano dal quotidiano economico collimano con le valutazioni che in queste settimane circolano tra gli addetti ai lavori: dopo un post-covid che l’ha messa al centro dell’attenzione di mercati e investitori per essere stata una delle poche attività distributive a uscire rafforzata dalla pandemia, la farmacia sta oggi attraversando un periodo di turbolenza legato a costi di gestione in crescita (a partire da quelli del personale) e tagli alla spesa sanitaria pubblica che durante l’emergenza aveva ricevuto robuste iniezioni di risorse.

Il momento difficile è evidente soprattutto a livello internazionale: una decina di giorni fa, il Wall Street Journal ha riferito di trattative in corso tra l’americana Walgreens Boots Alliance e il fondo di private equity Sycamore per la cessione dell’intero gruppo americano, cui fanno capo oltre 12mila farmacie negli Usa, in America Latina e in Europa. Non è un fulmine a ciel sereno: secondo un recente studio pubblicato dalla rivista Health Affairs, nel 2021 aveva chiuso quasi un terzo delle 89mila farmacie in attività negli Usa dal 2010. In Germania, le frmacie aperte sono scese dalle 21.500 del 2000 alle 17mila di oggi. Nel Regno Unito, hanno chiuso negli ultimi due anni 700 farmacie (sulle circa 14mila in attività), in Svizzera il numero delle farmacie aperte risulta più o meno stabile dal 2008 ma i progetti del governo federale sull’e-commerce dei farmaci fanno temere scossoni imminenti.

In Italia, dove le farmacie possono dire di godere di una benevola attenzione da parte di p0olitica e autorità sanitarie (principalmente per ciò che hanno fatto durante la pandemia) non spirano al momento venti di burrasca ma le preoccupazioni che invece si respirano nel vicino comparto della distribuzione intermedia e la permanente incertezza che grava sul quadro congiunturale (internazionale in particolare) non possono lasciare indifferenti mercati e operatori finanziari.

«Non c’è dubbio che le catene di farmacia sono meno attrattive di un tempo per i grandi fondi» è il commento di Alessandro Orano, ceo di Skills for Health «e oggi chi investe guarda a questo comparto con grande cautela per non dire preoccupazione. Scottati anche da alcune recenti esperienze, i fondi hanno scoperto che a comprare farmacie ci si può anche rimettere».

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Risultato, quell’assalto alla diligenza che nel 2017 in molti profetizzavano non c’è stato, e una parte di quei fondi e family office che con l’apertura della titolarità al capitale si erano affacciati sul nostro Paese oggi hanno preso il volo o stanno pensando di lasciare. «Quello della farmacia si è rivelato un affare poco profittevole» prosegue Orano «e si è scoperto che mettere in piedi una catena non è facile, comporta difficoltà varie e i guadagni sono relativi. Risultato, qualcuno ha cominciato a lasciare il mondo retail per guardare ad altri comparti dell’healthcare, come il pharma o il biotech».

In Italia, in particolare, la farmacia non è a rischio sopravvivenza ma quanto sta accadendo tra industria e distributori dimostra che i margini sono sotto tensione. «Questo per un titolare di farmacia non è un dramma» riprende Orano «ma rappresenta senz’altro un campanello di allarme perché vuol dire che occorre fare attenzione ai costi e alla sostenibilità dell’impresa. Per un fondo o i grandi investitori, che lavorano sui grandi numeri, è invece un invito ad andare a cercare miglior fortuna altrove».

Questa è la chiave di lettura con cui analizzare quanto sta accadendo in paesi come Germania o Francia, dove le catene non esistono ma le farmacie sono comunque sotto pressione: «I costi crescono, la carenza di personale rende tutto più difficile» conferma Orano «e quindi si generano pressioni su margini e fatturati. Le conseguenze sono quelle classiche: a fronte di utili in ribasso, qualche operatore decide di lasciare e andare a cercare fortuna altrove. È quello che è accaduto nel Regno Unito, dove Boots è in vendita da un paio di anni ma ancora nessuno se l’è comprata e Lloyds è stata dismessa filiale per filiale. In Italia le cose non sono a questo livello, le farmacie non chiudono, ma alcuni segnali – come l’andamenti dei prezzi di compravendita delle farmacie – fanno capire che un po’ di tensione c’è».

Cambierà forse il mercato, di certo non spariranno le catene anche perché il consumatore sta progressivamente abituandosi alla loro presenza: oggi sono il 21% gli italiani che dichiarano di riconoscere l’insegna di un’aggregazione (del capitale o delle farmacie indipendenti), quattro punti in più di un anno fa quando ad affermare la stessa cosa erano il 17% degli intervistati. Il dato arriva da TradeLab, che a Scanner Orizzonti – il forum di Pharmacy Scanner sulla farmacia organizzata (a Milano il 13 dicembre) – ha presentato una fotografia aggiornata dei progressi di catene e network in tema di brand awareness. Nell’ultimo anno, in sostanza le aggregazioni hanno lavorato in modo crescente sulla comunicazione della brand equity, ossia il valore del marchio e i risultati si avvertono. Forse, il 2025 sarà per catene e network l’anno della maturità, quello in cui fondi e capitali – come già accaduto in Svezia una decina di anni fa – si fanno da parte per lasciare il timone a operatori che nella sanità hanno il loro core business.

 





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