Il caso del capo della polizia giudiziaria di Tripoli, Njeem Osama Almasri Habish, è un delitto perfetto seppure sulla scena del crimine abbondino le tracce e le impronte degli autori che hanno permesso a un criminale di guerra ricercato dalla Corte penale internazionale di lasciare l’Italia regalandogli impunità eterna.
Ma resta un delitto perfetto perché gli indizi più visibili conducono a un unico responsabile politico: Carlo Nordio, il ministro della Giustizia. Troppo impegnato e distratto dall’ossessione di separare le carriere dei magistrati per dedicare un paio di ore a rispondere alla Corte d’Appello di Roma sulla formalizzazione della richiesta di arresto proveniente dall’Aja. Ha lasciato così che trascorresse un giorno e mezzo senza muovere penna.
Lasciando che i giudici decidessero per il rilascio del generale libico, arrestato con una procedura «irrituale» perché non vidimata dal ministero, appunto, l’unico organismo deputato a vagliare le richieste della Corte penale internazionale. Nordio avrebbe potuto porre rimedio nell’immediatezza, ma non lo ha fatto. Un’inerzia che ha suscitato la reazione dalla medesima Corte riferita tramite un comunicato molto duro.
Sulla scena di questo delitto perfetto, tuttavia, esistono molte altre tracce, nascoste eppure lampanti. Indizi che sommati formano una prova evidente e permettono di ricostruire la catena gerarchica dei mandanti. In condizioni diverse renderebbero tale delitto tutt’altro che perfetto, ma risolvibile in una manciata di ore. E però qui non siamo di fronte a una normale operazione di polizia, si tratta piuttosto di una complessa tela di relazioni sulla quale si reggono gli equilibri e gli accordi tra il governo italiano di Giorgia Meloni e quello di Tripoli guidato da Abdul Dbeibeh.
In altre parole tra la giustizia dovuta alle vittime del torturatore di migranti e lo stato di diritto c’è di mezzo la ragione di stato per la salvaguardia dell’interesse nazionale. Di questo intrigo politico fondato sul do ut des potremmo affermare che esistono le prove, ma non abbiamo i nomi, parafrasando al contrario il celebre j’accuse di Pier Paolo Pasolini. Anche se pure sui nomi dei mandanti c’è più di un sospetto.
A partire dall’utilizzo del volo di stato, il Falcon, aereo usato dai nostri servizi segreti. Il loro utilizzo è vincolato a specifiche procedure, che passano (come spiegato nell’articolo a pagina 7) dal tavolo dell’autorità delegata ai servizi segreti, il sottosegretario Alfredo Mantovano, fedelissimo della premier. Dunque come è possibile che Mantovano non sapesse se ha dovuto autorizzare il volo? Il suo silenzio sull’affare Almasri è indicativo. E dato che Mantovano non poteva non sapere è ridicolo immaginare una presidente del Consiglio ignara di quanto stesse accadendo.
Migranti e detenuti
Entrambi hanno a cuore la sorte dei rapporti con la Libia. Sull’immigrazione si gioca la credibilità con i loro elettori. Ed è un fatto che da quando le relazioni si sono intensificate e le risorse economiche indirizzate a Tripoli sono aumentate. Così le autorità locali hanno aumentato gli sforzi per evitare le partenze: secondo Frontex, l’agenzia europea delle frontiere, gli arrivi dal mediterraneo centrale (quindi Libia) sono crollati di oltre il 50 per cento, ma allo stesso tempo sono cresciuti di quasi il 30 per cento le intercettazioni in mare della guardia costiera libica, foraggiata dall’Italia e dall’Europa.
Dove finiscano i migranti respinti a Meloni e Mantovano interessa poco o niente. E neanche ai vertici europei pare. Le prigioni libiche sono danni collaterali di una grandiosa operazione di propaganda che non può subire rallentamenti.
Prigioni che il generale Almasri conosce fin troppo bene: diverse testimonianze di rifugiati confluite nel fascicolo della Corte penale internazionale lo indicano come un torturatore di migranti riportati in Libia grazie agli accordi con l’Italia. È peraltro dimostrato, da inchieste giudiziarie anche italiane, che chi gestisce i campi e i capi delle milizie sono spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, che guadagnano il doppio grazie ai respingimenti: perché chi fugge tenterà di rifarlo mille volte, pagando ogni volta, riprovandoci finché non morirà in mare o nel migliore dei casi arriverà finalmente sul suolo italiano, dunque europeo.
Nel quadro degli accordi con la Libia, risale a tre settimane fa la ratifica del trattato per il trasferimento nello stato nordafricano i condannati libici detenuti in Italia, che così finiranno di scontare la pena residua nelle patrie galere.
All’interno di questa procedura formale, risulta a Domani, Tripoli è interessata soprattutto al caso di cinque cittadini libici condannati a 30 anni di carcere per traffico di esseri umani: il presidente della Camera Aqila Saleh avrebbe parlato di questi detenuti “speciali” al ministro della Giustizia durante una sua recente visita a fine dicembre.
«Interesse nazionale»
Al dossier immigrazione si sovrappongono molti altri accordi di natura economica e militare. Perciò Meloni da nazionalista qual è di fronte ai piatti della bilancia ha preferito dare più peso all’interesse nazionale rispetto alle istanze della Corte penale internazionale, organismo alla quale l’Italia aderisce. «Abbiamo molti interessi in Libia», spiega un’autorevole fonte vicina al dossier Almasri, «e averlo tutelato porta a casa un grosso vantaggio».
Perché oltretutto il generale non è solo il capo della polizia giudiziaria di Tripoli ma sarebbe anche «il leader di una grossa Katiba», aggiunge, ossia una tribù, una delle tante con le quali negli anni sono stati stretti accordi informali da parte dei governi italiani con il fine di arginare i flussi migratori. Inoltre sarebbe controproducente provocare le autorità libiche anche perché «garantiscono protezione tutti i giorni ai soldati dei contingenti a Tripoli e Misurata», suggeriscono diverse fonti militari.
A luglio scorso Mantovano ha definito «senza precedenti» gli «accordi» siglati con la Libia e Algeria: «Mi riferisco anche ai settori più centrali della competizione economica come quello delle materie prime critiche, essenziali nel campo del digitale e dell’energia». In questa partita gioca un ruolo fondamentale Eni, il colosso petrolifero di stato: a settembre ha annunciato nuove perforazioni con la benedizione dell’autorità libica.
Nelle stesse ore in cui gli agenti della polizia ammanettavano Almasri, a Tripoli era in corso il summit sull’energia e l’economia , sostenuto e sponsorizzato dal colosso petrolifero Eni. Tra gli speaker anche diplomatici italiani e manager nostrani. L’organizzazione degli stand di sette aziende italiane è stata curata da Confindustria, con la collaborazione dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, l’Ice, che fa capo al ministero degli Esteri.
Un dato, riportato su Lybia Observer, aiuta a capire quanto Tripoli sia diventata strategica per il governo Meloni al di là dei migranti: da gennaio a luglio, l’Italia ha importato 7,39 milioni di tonnellate di greggio libico, pari al 22,3 per cento delle sue importazioni totali. Vuol dire più 28 per cento rispetto al 2023. Validi motivi, secondo la visione sovranista, per includere il generale Almasri, «il torturatore», nella categoria degli intoccabili.
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