Corruzione internazionale in USA e in Italia

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USA – ITALIA e il rispettivo approccio alla corruzione internazionale

 

Abstract

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Saldo e stralcio

 

La corruzione dei pubblici funzionari stranieri è stata definita come il «flagello» del commercio internazionale e, come si è lungamente disquisito già negli articoli precedenti, essa costituisce un serio elemento di preoccupazione per l’economia e lo sviluppo, per l’equità̀ sociale e per la stessa salute delle imprese multinazionali che più di tutte risultano veicolo del fenomeno.

Fenomeno enorme, grave e diffuso, che ha trovato per lo più argini timi e inefficaci, con la sola significativa eccezione degli Stati Uniti. Il paese americano, infatti, è stato il primo a punire come illecito penale la corruzione internazionale, dando così avvio al processo di criminalizzazione su scala globale. Inoltre, stimolando l’adozione di convenzioni internazionali in materia, il tentativo di legal transplant non può che considerarsi un approdo mancato di far convergere gli ordinamenti stranieri verso l’introduzione di regole uniformi che svolgessero una efficace azione di contrasto al fenomeno.

In conclusione a tale processo, va osservato che – ad ogni modo – su queste premesse, l’ordinamento statunitense e le scelte di politica criminale del paese americano hanno costruito la loro supremazia.

Un dato risulta incontrovertibile: l’aver convinto i paesi stranieri a sottoscrivere specifici obblighi di incriminazione, per le persone fisiche e le persone giuridiche, in relazione alle condotte di corruzione internazionale, attraverso lo strumento convenzionale, alla prova dei numeri, è risultato del tutto insufficiente a raggiungere l’obiettivo. Ciò, anzitutto, perché le disposizioni nazionali introdotte sono risultate non pienamente conformi agli obblighi assunti in sede internazionale, né al modello di origine americana. In secondo luogo – lo si è visto anche con riguardo agli altri paesi coinvolti dal legal transplant – al netto delle divergenze dai modelli convenzionali e di origine statunitense, il processo di criminalizzazione ha comunque condotto a risultati largamente insoddisfacenti in termini di enforcement.

Vi è da dire che non è stato tutto inutile. Infatti, è il processo di criminalizzazione ad aver posto le premesse indispensabili all’azione universale di contrasto al fenomeno della corruzione internazionale, avviata dagli Stati Uniti negli ultimi due decenni, e da cui sorgono le rilevanti implicazioni per le multinazionali e gli stati stranieri.

Difatti, sebbene sia complessivamente fallito il tentativo di legal transplant, ossia di esportare ed applicare il modello statunitense all’interno dei paesi esteri, in modo che ciascuno di essi contribuisse all’azione di contrasto al fenomeno, il processo di criminalizzazione – ancorché inefficace sul piano applicativo – ha comunque raggiunto l’obiettivo di far convergere idealmente le potenze straniere verso un indirizzo condiviso, ossia il proposito comune di reprimere la corruzione internazionale.

 

L’origine del fenomeno e le risposte della comunità internazionale

Dalle orazioni di Cicerone contro Verre in avanti, nella storia dell’Europa il tema della corruzione è frequente e strutturale.

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Charles Darwin nel suo celebre “Viaggio di un naturalista intorno al mondo”, a proposito di una tribù della Patagonia, scriveva: ” questa tribù ha avuto così tanto contatti con marinai e balenieri che la maggior parte degli uomini parla un po’ di inglese e di spagnolo; essi sono in parte civilizzati, e corrotti in proporzione”.

Il fenomeno corruttivo è stato in grado di modificare il codice genetico della società e con il tempo ha subito una profonda metamorfosi, passando da episodi isolati ad una articolata trama di regole e prassi che si sono via via radicate nella coscienza degli individui. Complice principale di questo mutamento è l’incremento di scambi internazionali.

Nello specifico, le transazioni economiche messe in atto dalle imprese multinazionali hanno fatto si che il fenomeno uscisse dalla sua dimensione domestica, pregiudicando il commercio internazionale – le imprese sane sono state spiazzate dal vantaggio competitivo di quelle corrotte – e provocando così una sfiducia collettiva da parte dei cittadini.

In questo scenario si è dunque fatta primaria la necessità di fornire una risposta efficace ed idonea per contrastare il fenomeno corruttivo. Questa risposta, però, come spesso accade, ha tardato ad arrivare.

Per svariati anni il fenomeno della corruzione non ha ricevuto l’adeguato livello di attenzione, contribuendo così al proliferare indisturbato delle pratiche corruttive.

Stefano Manacorda, nel saggio sulla corruzione del pubblico agente straniero, afferma che la “diffusione su larga scala della pratica attribuita alle imprese multinazionali di stringere accordi corruttivi in Stati esteri risale ai primi anni Settanta, in concomitanza con l’intensificarsi del commercio mondiale”.

Nonostante si tratti di un fenomeno relativamente recente, sin dalla fine del secolo scorso, con l’emergere di alcune clamorose vicende, si sono iniziati a intravedere i tratti essenziali della corruzione internazionale e i caratteri distintivi rispetto agli accordi corruttivi interni. A questo si aggiunga come il fenomeno concerna le relazioni commerciali tra Paesi occidentali, oltre a presentarsi anche «in termini particolarmente acuti nei rapporti con i Paesi del terzo mondo o in via di transizione economica».

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Solamente a seguito degli ormai evidenti e catastrofici effetti della corruzione la comunità internazionale ha avvertito un’esigenza “morale” ed ha deciso di intervenire.

Due sono state le fasi storiche: in una prima, conclusa verso la metà degli anni 2000, è stata promossa l’adozione di convenzioni internazionali per far si che gli ordinamenti interni si allineassero a uno standard globale. Le Carte internazionali si ispiravano al modello statunitense del Foreingn Corrupt Practices Act (FCPA), una legge approvata negli States nel 1977, a seguito della nota vicenda della società Lockheed.

Questo primo approccio, come già accennato in precedenza, si è però rivelato deludente, per questo motivo, nella seconda metà degli anni 2000, si è passati dalla esportazione delle regole statunitensi alla loro applicazione diretta ed extra-territoriale, cercando di esportare il modello americano fuori dai confini nazionali, stimolando, conseguentemente, numerosi ordinamenti ad adottare strumenti legislativi che potessero essere quanto più aderenti al FCPA.

 

La Convenzione OCSE

In linea con quanto detto precedentemente né derivò la volontà di estendere il modello americano del FCPA a livello internazionale attraverso un intervento multilaterale che imponesse le medesime regole a tutti gli attori del commercio internazionale.

Per raggiungere tale obbiettivo, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), rappresentava il forum ideale per sensibilizzare i Paesi più ricchi ad introdurre nel loro ordinamento un obbligo di criminalizzazione della corruzione internazionale.

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Nel 1997 l’OCSE approvò a Parigi la Convenzione contro la corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali, esportando così il modello americano al di fuori degli Stati Uniti, vincolando gli Stati che vi aderiscono a un obbligo di criminalizzazione, per le persone fisiche e per le persone giuridiche, della corruzione di pubblici ufficiali esteri per l’ottenimento di indebiti vantaggi.

Secondo gli esperti dell’OCSE, ad esempio, un metodo impiegato per retribuire illecitamente pubblici ufficiali consiste nell’ effettuare pagamenti ad uno studio legale come corrispettivo per presunti servizi resi, versamento che sono quindi depositati sui conti fiduciari dell’avvocato e da questi conti vengono effettuati i pagamenti al pubblico ufficiale.

Questo metodo passa anche per il tramite di società di pubbliche relazioni, pubblicità o contabilità.

In questo scenario, il mediatore porta sul tavolo ciò che in genere manca a una società non residente, ossia un’appropriata comprensione e valutazione del contesto ambientale del business e solide relazioni con gli attori chiave; tutti elementi fondamentali per il successo in un mercato straniero di una società non residente. Si comprende dunque la ragione per la quale l’assunzione di agenti stranieri sia diventata la norma nella ricerca di opportunità commerciali all’estero.

Al penalista interessa ovviamente solo la deriva patologica del ricorso agli intermediari, ossia l’attivo coinvolgimento degli stessi in pratiche corruttive. Il caso più radicale è rappresentato da quelle società che risultano solo fittiziamente dedite all’attività di consulenza, avendo in realtà come unico scopo quello di fungere da tramite di pagamenti illeciti: in queste ipotesi si ritiene come la società non fornisce alcuna effettiva prestazione e può persino risultare controllata dallo stesso funzionario pubblico. Le parti cercano tuttavia di conferire una veste di liceità alla transazione utilizzando documentazione fittizia e contratti dal contenuto nebuloso.

In buona sostanza, la Convenzione OCSE richiede che ciascun Paese membro:

  • preveda adeguati termini prescrizionali per le indagini ed il perseguimento del reato di corruzione transnazionale (art. 6);
  • preveda il reato di riciclaggio con riferimento al danaro o proventi del reato di corruzione transnazionale nei casi in cui riconosca analogo reato di riciclaggio per il denaro o proventi del reato di corruzione domestica (art.7);
  • proibisca partiche contabili e di auditing intese a facilitare e nascondere condotte di corruzione (art.8);
  • adotti meccanismi di pronta ed effettiva cooperazione internazionale nelle indagini e processi aventi ad oggetto il reato di corruzione transazionale (artt. 9 e 10).

La Convenzione è stata ratificata anche dall’Italia, la quale ha introdotto il reato di corruzione di pubblici ufficiali stranieri (art. 322-bis, comma 2, n.1, c.p.).

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Nel 2022 il “Phase 4 Report – Italy”, il quale valuta il grado di applicazione di applicazione da parte dell’Italia della Convenzione OCSE, ha dimostrato come il nostro Paese ha rafforzato in maniera significativa il quadro normativo per contrastare il fenomeno. Questi miglioramenti includono l’allungamento dei termini di prescrizione del reato, l’aumento delle pene detentive e delle sanzioni interdittive e l’introduzione di un sistema di tutela per i whistleblower.

Il gruppo di lavoro istituito dalla Convenzione, il Working Group on Bribery in International Business Transaction (WGB), ha espresso però preoccupazione in merito all’elevato numero di dismissal (archiviazioni o proscioglimenti) per i casi di corruzione internazionale avvenuti in Italia.

Le ragioni individuate sono le seguenti:

  • la frequente riqualificazione del reato di corruzione nel delitto di concussione;
  • la mancata adozione di un approccio olistico da parte dell’AG nel caso concreto che non permette di considerare le prove indiziarie nel loro complesso;
  • il gravoso onere probatorio relativo alla sussistenza dell’accorto corruttivo e della contrarietà alla legge straniera;
  • la previsione della causa di non punibilità per la effettiva collaborazione con l’autorità, come previsto dall’art. 323-ter c.p.

Ulteriori preoccupazioni espresse dal WGB riguardano le persone giuridiche, poiché le sanzioni pecuniarie sarebbero inadeguate, la tutela del whistleblowing non ancora completa e il grado di applicazione delle sanzioni interdittive non del tutto sufficiente.

L’Italia è chiamata a riferire all’OCSE sull’attuazione di tutte le raccomandazioni all’interno della Phase 4 entro il mese di ottobre 2024. Si dovrà dunque attendere la fine dell’anno per conoscere in maniera più precisa lo stato dell’arte.

 

La premialità e la compatibilità con il principio del “nemo tenetur se detegere”

Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 reca già alcuni elementi di premialità di cui senz’altro occorre tenere conto nel giudizio di compatibilità tra il sistema statunitense e l’assetto ordinamentale italiano, in vista di un suo possibile recepimento nel nostro ordinamento.

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Sul punto, va osservato che l’art. 11 del decreto citato prevede, nella determinazione della sanzione pecuniaria, il giudice debba tenere conto dell’attività svolta dall’ente per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti. Inoltre, l’art. 12 del decreto dispone una riduzione della sanzione nel caso in cui l’ente, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, abbia risarcito integralmente il danno, ovvero eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, o comunque si sia «efficacemente» adoperato in tal senso. Lo stesso prevede, inoltre, se abbia adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi. Infine, qualora abbia soddisfatto entrambi i requisiti ed altresì messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca, l’ente può inoltre evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive.

Nella disciplina italiana risultava, però, sino a poco tempo fa, del tutto assente ogni prospettiva premiale in favore dell’ente espressamente prevista per la collaborazione all’accertamento dei fatti, per la identificazione dei colpevoli e, infine, per la volontaria «discovery» di illeciti societari che, invero, costituiscono, assieme alla clausola delatoria (o «snitch clause»), alcuni degli elementi caratterizzanti il modello statunitense.

In un sistema, come quello statunitense, caratterizzato dalla notevole severità dell’apparato sanzionatorio, l’altro lato della medaglia della prospettiva premiale, invero, disvela un effetto sostanzialmente sfavorevole per l’ente che non accede alla collaborazione, con ciò evidenziandosi un potenziale conflitto con il principio italiano del nemo tenetur se detegere. Difatti, in presenza di sanzioni pecuniarie così marcatamente afflittive quali sono quelle previste dal modello statunitense, ed a fronte degli effetti negativi di cui si è detto, derivanti dall’avvio di una investigazione, dalla incriminazione e dal processo per corruzione internazionale, ad emergere non è la prospettiva premiale della collaborazione, quanto piuttosto la prospettiva penalizzante a fronte della non collaborazione.

In proposito, però, va osservato che tale argomentazione non ha impedito l’introduzione, nell’ordinamento italiano, di disposizioni analoghe per le persone fisiche, in relazione a reati quali l’associazione per delinquere di stampo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p., ai reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, e precisamente dei benefici previsti dall’ art. 416 bis.1 c.p.
Lo stesso deve rilevarsi in relazione al delitto associativo finalizzato al traffico di sostanze stupefacenti, posto che all’art. 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il comma 7 espressamente prevede una diminuzione dalla metà a due terzi delle pene previste dallo stesso articolo nel caso l’imputato si sia «efficacemente» adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti.

Paradossale risulta, poi, la circostanza che disposizioni analoghe siano state introdotte per le persone fisiche, proprio in relazione ai reati di corruzione, ivi compresa la fattispecie di corruzione internazionale di cui all’art. 322 bis c.p., che sono state invece introdotte solo di recente nella disciplina della responsabilità degli enti, a norma del D.Lgs. n. 231/2001.

Anzi tutto l’art. 323 bis c.p. dispone la riduzione della pena da un terzo a due terzi per chi si sia «efficacemente» adoperato per evitare che l’attività illecita sia portata a ulteriori conseguenze, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione dei responsabili, nonché per il sequestro delle somme trasferite. L’art. 323 ter c.p., di recente introduzione, dispone inoltre una clausola di non punibilità per la tempestiva autodenuncia e per la immediata collaborazione con l’autorità giudiziaria, con indicazioni utili per assicurare le prove dei reati e per la individuazione dei responsabili.

Non si rinvengono, invece, come si è anticipato, disposizioni equivalenti nel D.Lgs. 231/01 nel quale il legislatore, neppure in seguito alla recente novella, ha inteso modificare l’art. 12, e cioè rimpinguare i casi di riduzione o di esclusione della sanzione pecuniaria proprio per la immediata o successiva «discovery» volontaria e collaborazione con l’ autorità giudiziaria sull’ accertamento dei fatti, sull’identità dei colpevoli e su eventuali illeciti di terzi non ancora individuati.

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Al contrario, egli si è limitato all’introduzione del comma 5-bis all’art. 25, in cui si prevede la mera riduzione della durata delle sanzioni interdittive, e non anche delle sanzioni pecuniarie, nel caso in cui l’ente si sia «efficacemente» attivato per evitare che l’attività corruttiva venga portata a ulteriori conseguenze, per assicurare le prove del reato e per l’individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, e contestualmente abbia eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’ adozione e l’ attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.

Tali disposizioni risultano, invero, del tutto insufficienti rispetto alla prospettiva premiale contenuta nella disciplina statunitense.

Anzitutto, va osservato come esse si rivolgano al reato, e non anche all’illecito amministrativo, per cui non è previsto alcun beneficio premiale per l’ente che autodenuncia o collabora all’accertamento del proprio illecito. Inoltre, esse non comportano l’esclusione o la riduzione della sanzione pecuniaria, né una riduzione effettivamente significativa della durata delle sanzioni interdittive, per cui non solo la disciplina risulta orientata all’affermazione della responsabilità̀ penale delle persone fisiche, ma addirittura sembra non curarsi degli effetti che la collaborazione richiesta comporta per la responsabilità amministrativa della persona giuridica.

Infine, un ultimo elemento: l’esclusione delle sanzioni pecuniarie dalla premialità può essere colmata solo in parte dai benefici derivanti dalla «attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto» di cui all’art. 11 del decreto. Per cui, si rende manifesta non solo l’omissione di un elemento premiale significativo, ma ciò tradisce l’assoluta inadeguatezza della sanzione pecuniaria nel sistema sanzionatorio approntato dal decreto risulta pressoché assente il requisito della severità, che invece contraddistingue e muove il successo del FCPA.

In questa sede, occorre perciò sottolineare come l’introduzione di istituti che comportino una prospettiva premiale per l’ente, il quale autodenuncia l’illecito amministrativo e fornisce indicazioni utili per l’accertamento dei fatti, non solo di reato, ma anche delle violazioni del decreto, risulta compatibile con l’assetto complessivo del sistema penale e, conseguentemente, non può che guardarsi con favore all’introduzione, non già di una mera clausola che esclude la punibilità quanto, piuttosto, di una organica disciplina improntata alla premialità graduale, in base alla tempestività ed alla completezza delle attività rimediali, che includa altresì la collaborazione dell’ente all’acquisizione di notizie di reato e di illecito amministrativo non già conosciute dall’autorità.

Naturalmente, ciò non potrà riguardare solo la durata delle misure interdittive, com’è attualmente, ed al contrario dovrà prevedere la possibilità di mitigare od escludere, tanto le sanzioni interdittive quanto la sanzione pecuniaria, in base a criteri predeterminati dalla legge.

 

Spunti di riflessione conclusivi

Si è visto come il completo disinteresse mostrato inizialmente al fenomeno corruttivo internazionale abbia poi lasciato spazio al proliferare di convenzioni sul paino internazionale, e all’adozione di legislazione interne volte a reprimere le pratiche illecite.

Con l’introduzione dell’art. 322-bis l’Italia si è attivata per dotarsi di una fattispecie specifica, che, tuttavia, si è rivelata non priva di problemi ed incertezze sia sul piano strutturale sia sulla sua applicazione giudiziaria, rivelando la sua inadeguatezza rispetto alla capacità offensiva del fenomeno in oggetto di trattazione.

In linea generale l’art. 322-bis richiede un accertamento del fatto tipico che è a dir poco difficilmente raggiungibile con i mezzi a disposizione delle autorità inquirenti, comportando conseguentemente una compressione delle garanzie dell’individuo, giudicato con sempre più frequenza sulla base di meri indizi anziché essere sottoposto al corretto iter probatorio.

Sotto questo delicato profilo, la lotta al fenomeno corruttivo dovrebbe, forse, essere ripensata in termini diversi spostando, secondi chi scrive, l’accertamento del fatto tipico sul momento consumativo del reato anziché sulla prova dell’accordo corruttivo.

Anche il discorso d’insediamento (meglio, di giuramento) del 47’ Presidente degli Stati Uniti d’America, apre ad una nuova frontiera di lotta alla corruzione con circa 200 ordini esecutivi che promuoverebbero una politica più trasparente. Che sia uno spunto per attingere a nuove practice; tra tutte la creazione di un organismo di supervisione indipendente per monitorare l’operato dei dipartimenti federali, con compiti di individuare abusi di potere, conflitti di interesse e inefficienze, rendendo i processi decisionali più trasparenti.



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