La strategia globale di Trump: nuovi confini e vecchie ambizioni

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Sì, lo scioglimento dei ghiacci sta rendendo accessibili enormi giacimenti di terre rare, essenziali per microchip e tecnologie avanzate, e dunque la fecondità e la posizione strategica della Groenlandia (e il suo petrolio) potrebbero consentire agli Stati Uniti un maggiore controllo sulle nuove rotte artiche e un accresciuta indipendenza energetica; pertanto, sono un obiettivo geopolitico.

No, le allusioni di Donald Trump sulla possibilità che il Canada diventi il 51esimo stato americano non sono soltanto una frecciatina al premier dimissionario Justin Trudeau, ai democratici e liberal canadesi e ai loro referenti negli Usa, e avrebbero teoricamente un fondamento in ragione «dell’enorme disavanzo commerciale e dei sussidi di cui il Canada ha bisogno per rimanere a galla», come ha dichiarato lo stesso Trump.

E sì, l’area del canale di Panama e i rispettivi traffici commerciali rischiano di finire sotto il completo controllo della Cina, che nelle vicinanze continua a costruire porti e hub per lo smercio dei prodotti cinesi da destinare ai mercati esteri; ragion per cui, se si vuole eliminare la presenza cinese nelle Americhe e magari anche rovesciare strozzando economicamente quei regimi considerati ostili, come Cuba e il Venezuela, si può pensare addirittura di occuparla.

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Ma tutto questo non può prescindere da un’analisi a monte: anzitutto, queste idee non sono proprio nuove per la politica degli Stati Uniti; secondo, Groenlandia, Canada e Panama sono nelle mire espansionistiche della nuova amministrazione Trump perché il mondo è cambiato e l’imperialismo è di nuovo un orizzonte politico, sdoganato – ancor prima che legittimato – dall’aggressività degli altri imperi concorrenti degli Stati Uniti, ovvero Russia e Cina.

Dunque, non solo il prossimo quadriennio americano si annuncia ricco di colpi di scena, con possibili nuovi confini da disegnare e conflitti da gestire, segno del prepotente ritorno degli Usa alla visione imperialista che gli è propria. Ma la mossa di Washington – ammesso che davvero la nuova Amministrazione voglia perseverare lungo queste direttrici – è anche il riflesso delle scelte compiute dalla Cina, che non nasconde la volontà di aggredire l’isola di Taiwan per annetterla al continente e ridurla a una regione dipendente da Pechino; e dalle scelte di Mosca, che il 24 febbraio 2022 ha rispolverato l’idea che per mantenersi tale un impero debba espandersi e annettere, muovendo guerra laddove sia necessario. Di conseguenza, quelle «sparate» di Trump potrebbero ascriversi (almeno in parte) alla voce «reazione» alle politiche ostili dei suoi principali competitor.

Con una novità: a suggerire queste mosse all’orecchio del tycoon oggi non ci sono più soltanto gli «avveduti» strateghi alla Henry Kissinger, quelle colte figure novecentesche che provenivano dalle accademie di scienze politiche o simili, né esse sono appannaggio dei soli neoconservatori. Oggi queste idee circolano per lo più nei board delle big tech, quelle società private che da «unicorni» (aziende il cui valore è superiore al miliardo di dollari) si stanno trasformando in lupi affamati di denaro e successo personale.

Soggetti cioè che antepongono economia e finanza a politica e diplomazia. Non solo Elon Musk, ma anche numerosi altri nuovi manager che, all’occasione, dileggiano le istituzioni e se ne infischiano delle regole delle relazioni internazionali, così come non si curano delle conseguenze delle proprie parole (e azioni). A fare eccezione è il neo Segretario di Stato Marco Rubio, che da sempre invoca azioni aggressive da parte statunitense in America Latina: di origine cubano-americana, la sua idea è espandere la presenza statunitense anzitutto nel «cortile di casa» ovvero appunto le due Americhe. Probabilmente, è a lui che si deve anche l’idea bizzarra di ribattezzare il golfo del Messico come golfo d’America.

Perché mai, è il ragionamento nei circoli di destra degli Stati Uniti, l’America si dovrebbe sforzare di moderare, contenere, combattere in luoghi impervi, lontani ed esotici come il Medio Oriente, l’Asia e l’Europa orientale, quando tutto ciò che serve all’impero americano si trova già a due passi da casa? La stessa «lezione» che Trump vorrebbe impartire ad Hamas e alle milizie ostili a Israele nella regione mediorientale, è poco più che la ricerca di un palcoscenico attraverso il quale Washington può continuare ad esercitare la propria superiorità militare. Ma quei luoghi non sono più un obiettivo strategico per l’America; almeno, non da quando gli Stati Uniti sono diventati energeticamente indipendenti. Tale visione è penetrata nel mondo dei conservatori Usa e, se anche potrebbe non essere così peregrina dal punto di vista geopolitico, ma di certo è pericolosissima.

La seconda presidenza Trump, insomma, si avvia verso un imperialismo 2.0 guidato da tecnocrati ultra ricchi, sfacciati e di destra, che vorrebbero portare l’America verso il predominio globale definitivo attraverso la rovina di altre nazioni e altre istituzioni internazionali, anche o anzitutto amiche, come la Nato («alziamo il tetto delle spese militari al 5%» dice Trump) e l’Unione europea.

Non sfuggirà ai più che la Groenlandia sia un possedimento della Danimarca e che, in quanto membro dell’Ue, quello di Trump sia anche un attacco alla sovranità del nostro continente. Ma l’idea è convincente nella mente del presidente, per tre ragioni: la prima è che la Groenlandia è sede di un’importante base militare statunitense, la Space Force di Pituffik (qui c’è lo zampino di Musk, leader nel settore aerospaziale con SpaceX); inoltre, è ricca di materie prime per i chip alla base delle nuove tecnologie (ancora Musk, con Tesla e Starlink); infine, il cambiamento climatico ha reso le rotte navali dell’Artico potenzialmente rilevanti e, se in possesso degli Usa, esse potrebbero rappresentare una via ancor più breve per mettere un piede in Europa e dominarla. Inoltre, la Danimarca è una monarchia e, nella visione di Trump, la cosa deve apparirgli quantomeno anacronistica (di certo, l’uomo non nutre rispetto verso istituzioni che non comprende appieno).

Anche il Canada è formalmente una monarchia, che dipende dalla corona britannica: in quanto Stato membro del Commonwealth britannico, fa parte dei quindici reami che hanno come capo di Stato il sovrano del Regno Unito. Di conseguenza, benché indipendente, oggi semmai risponde a Londra e non certo a Washington.

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Forse soltanto la valenza strategica e commerciale di Panama – che ha ristabilito rapporti diplomatici con la Cina nel 2017 e che da allora, come altre zone dell’America Latina, è stata teatro di cospicui investimenti infrastrutturali da parte cinese – potrebbe convincere davvero la Casa Bianca a impegnarsi politicamente, economicamente e fosse mai anche militarmente nel quadrante centramericano, considerato che il «nemico numero uno» degli Stati Uniti di Trump è e resta il regime di Pechino. In questo senso, la politica del «pivot to Asia» di Barack Obama, cioè il riposizionamento strategico americano verso il continente asiatico, non è cambiata con la nuova amministrazione repubblicana. Anche perché le proiezioni degli imperi trascendono le politiche di corto respiro delle singole amministrazioni.

In definitiva, Donald Trump non è ancora ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti che ha già sconvolto le relazioni internazionali, anzitutto tra i Paesi alleati. Come si suol dire, ne vedremo delle belle (o brutte).





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