«Amo la Cina e mi piacerebbe venirci più spesso». Era il 9 gennaio 2019 quando l’uomo più ricco del mondo, stringendo la mano al numero due del partito comunista, pronunciò la sua dichiarazione d’amore nei confronti della Repubblica popolare cinese. Durante quell’incontro a Pechino era stato lo stesso Li Keqiang a offrire a Elon Musk la residenza permanente in Cina. Due giorni prima, l’imprenditore con un patrimonio di 400 miliardi di dollari aveva inaugurato a Shanghai il primo stabilimento Tesla fuori dagli Stati Uniti, dando l’abbrivio a un rapporto “win-win”, come da formula dei comunisti cinesi: boom di profitti per la corporation a stelle e strisce grazie alla fabbrica che il Pcc ha voluto come traino di investimenti hi-tech e simbolo della svolta green del paese.
Passati cinque anni, i fantastiliardi di Musk – che Donald Trump ha messo a capo del Dipartimento per l’efficienza governativa – dipendono sempre di più dalla Cina, che il presidente eletto, nella sua prima Strategia di sicurezza nazionale (dicembre 2017), ha accusato di «sfidare il potere, l’influenza e gli interessi americani, tentando di erodere la sicurezza e la prosperità americana». Metà della produzione globale di Tesla ha luogo nella Gigafactory 3 della megalopoli sul delta del Fiume azzurro. L’anno scorso le vendite globali di auto elettriche Tesla (1.789.226) sono diminuite dell’1,1 per cento rispetto al 2023, mentre quelle in Cina (657.175, il 37 per cento del totale) sono aumentate dell’8,8 per cento. Tesla ha potuto godere degli stessi sussidi accordati ai produttori locali, e i suoi affari in Cina non si limitano alle macchine elettriche.
Nel primo trimestre di quest’anno la multinazionale con quartier generale ad Austin (Texas) avvierà a Shanghai la produzione dei suoi Megapack, sistemi che assicurano lo stoccaggio massiccio di energia pulita. Anche in questo caso Musk – abbracciando la linea “In Cina per la Cina” – h
a puntato anzitutto sul mercato locale, all’avanguardia nell’utilizzo delle rinnovabili, anche per alimentare l’infrastruttura di ricarica degli Ev. I principali partner della filiera dei Megapack sono CATL e FinDreams (BYD), le compagnie cinesi più ricche e innovative che dominano il settore delle batterie al litio-ferro-fosfato (Lfp).Conflitto d’interessi
Quello che rischia di esplodere il 20 gennaio, quando si insedierà il quarantasettesimo presidente Usa, è un conflitto d’interessi senza precedenti, che aleggerà sulla Casa bianca finché Musk rimarrà tra i consiglieri più fidati di Trump. Un contrasto a tal punto inedito tra affari privati e rappresentanza di una nazione, che – mentre il valore delle azioni di Tesla continua a salire dopo la vittoria del magnate repubblicano – l’Economist si è chiesto, sulla copertina dell’ultimo numero: Elon Musk dominerà la politica economica del presidente Trump?.
Il conflitto tra il ruolo di Musk e l’interesse generale è apparso evidente già negli ultimi giorni dell’amministrazione Biden. Prima con l’approvazione del provvedimento per evitare lo shutdown federale, che conteneva ulteriori limiti agli investimenti Usa in Cina nei settori dei semiconduttori, dell’informatica quantistica e dell’intelligenza artificiale, rimossi in seguito alla contrarietà manifestata pubblicamente da Musk. Poi con lo scontro in corso sui visti concessi dagli States a ingegneri e ricercatori hi-tech stranieri, che ha contrapposto Musk, contrario a una stretta su questi permessi, essenziali per attirare talenti nella Silicon Valley, all’elettorato anti-immigrazione che ha riportato alla Casa bianca Trump, che alla fine si è allineato all’imprenditore da lui stesso definito un “genio”.
A convincere Musk a costruire a Shanghai la Gigafactory 3 è stato – quando era segretario di partito della città – Li Qiang, il funzionario che il XX congresso del Pcc (16-22 ottobre 2022) ha promosso a numero due e premier, un gradino più in basso del presidente Xi Jinping. Negli ultimi anni a Musk è stato concesso di accedere a Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale dove vivono iper protetti i massimi leader del partito, e di vedere faccia a faccia Xi, il ministro dell’industria Jin Zhuanglong, e quello del commercio, Wang Wentao.
Calamita hi-tech
Tutto ciò ha indotto l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, a denunciare che il Pcc è il “pagatore” di Musk, e altri a ipotizzare che Xi e compagni potranno utilizzare Musk come “leva” per promuovere l’agenda della Cina all’interno dell’amministrazione Usa. Un’iperbole che non tiene conto della reale strategia di Pechino, né degli obiettivi di Musk e degli interessi degli Stati Uniti d’America.
Per comprendere la scommessa del Pcc sul tycoon di origine sudafricana basta rileggere l’augurio rivoltogli a Pechino dell’ex primo ministro Li, scomparso nel 2023: «Auspichiamo che otterrete un solido punto d’appoggio ed espanderete il mercato e speriamo che Tesla possa partecipare all’apertura della Cina e promuovere relazioni stabili tra Cina e Stati Uniti». Alla prima compagnia straniera alla quale ha accordato il privilegio di possedere un impianto senza stringere una joint-venture con un partner locale Pechino attribuisce un valore soprattutto economico.
Le Model 3 e Model Y sfornate dalla Gigafactory 3 – emblema di un’America a cui tanti cinesi guardano con ammirazione – hanno contribuito in maniera decisiva alla popolarità dei veicoli elettrici in quello che è diventato il loro primo mercato globale. E – così come in futuro i Megapack – si sono rivelate funzionali ad affermare le politiche industriali e ambientali del Pcc. Il partito si sta servendo di Musk per i suoi obiettivi di sviluppo socioeconomico. E a Starlink la Cina non ci pensa nemmeno. Per difendere la sua sovranità Pechino ha dato vita al sistema di comunicazioni satellitari, Jilin-1, che qualche giorno fa ha registrato la velocità record di trasmissioni dati di 110 gigabit al secondo.
La posta in gioco
Per quanto riguarda Musk, come tutti i grandi industriali continuerà in primo luogo a provare a impinguare il fatturato delle sue compagnie. Per questo motivo, nel sottotitolo della sua prima pagina, l’Economist prevede che dovrà affrontare l’opposizione sia dei fautori dell’America First che dei conservatori mainstream.
Per quanto concerne il governo Trump, certo ora che Musk è diventato il suo braccio destro lo scenario è diverso, ma bisogna ricordare che la Gigafactory 3 di Shanghai ha avviato la catena di montaggio proprio mentre The Donald sfidava Pechino a colpi di dazi sulle importazioni dalla Cina, che ora minaccia di aumentare fino al 60 per cento.
In altre parole la presenza di Musk nella sua amministrazione (che secondo alcuni potrebbe durare poco) non impedirà a Trump di portare avanti la politica anti-Cina affidata a ministri come Marco Rubio, che guiderà il dipartimento di stato e che nel 2023 ha accusato Musk di «aiutare il partito comunista cinese a coprire il genocidio e il lavoro forzato nella regione», per aver aperto una concessionaria di Tesla nel Xinjiang.
Infine, è altamente improbabile che Pechino reagirebbe alle super tariffe di Trump con una rappresaglia contro mr. Tesla, come pure è stato ipotizzato da alcuni commentatori. Questo perché a Pechino sapranno distinguere tra le politiche di Trump ed Elon Musk, finché quest’ultimo continuerà a “servire gli interessi della Cina”. Con i suoi complimenti sperticati («La Cina spacca, il suo popolo è intelligente e laborioso, mentre gli americani sono compiaciuti e privilegiati»), così come con i suoi investimenti che favoriscono la rincorsa della seconda economia del pianeta, finora Musk si è rivelato l’interprete perfetto del ruolo che Mao Zedong aveva riservato agli stranieri.
Quanto durerà l’idillio con la leadership di Pechino e quello con The Donald è una questione che, più che alle relazioni Usa-Cina, è legata alla capacità di Musk di tenere il piede in due scarpe, continuando a essere utile alla Cina, senza però irritare gli apparati più potenti a Washington.
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