Meno poteri ai pm. Un appello da sinistra

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“Sbaglia chi sostiene che l’obiettivo della separazione delle carriere sia indebolire  l’indipendenza della magistratura”. Il libro dell’ex star della sinistra Giuliano Pisapia, in dialogo con Carlo Nordio nel 2009


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Pubblichiamo l’estratto di un capitolo scritto nel 2009 da Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, e Giuliano Pisapia, avvocato, ex sindaco di Milano, ex parlamentare di Rifondazione comunista ed ex europarlamentare del Pd. Il libro si chiama “In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili” (edizioni Guerini e Associati)


   
Carlo Nordio. I magistrati sono terrorizzati dal sospetto che la separazione delle carriere sia l’anticamera della soggezione del pm al potere esecutivo. In teoria questo timore è infondato, perché non vi è alcuna consequenzialità logica tra le due proposizioni. I pubblici ministeri possono benissimo essere svincolati dai giudici e godere lo stesso di indipendenza, così come i giudici possono essere separati dai pm pur essendo di nomina squisitamente politica, come lo sono i membri della Corte suprema americana, chiamati dal Presidente. In realtà il timore è reale – o è vissuto come reale –, perché la necessità della separazione non è mai stata prospettata nei suoi razionali termini sistematici, come naturale attributo del processo accusatorio, ma è sempre stata evocata in occasione di processi ad alta valenza politica.

Se a questa significativa coincidenza si aggiungono le aggressioni che, nella sostanza e nella forma, la magistratura ha subito negli ultimi anni, è logico che anche le sue componenti meno aggressive e più disponibili al dialogo abbiano sentito puzza di bruciato. Ritengo che sia stata colpevole miopia non comprendere che, su argomenti così delicati, si deve dialogare in punta di fioretto e non entrare con la clava nella cristalleria. Detto questo, aggiungo che sono stato uno dei primi magistrati a pronunciarmi a favore della separazione delle carriere. Dico a pronunciarmi, perché molti colleghi condividono la mia opinione, ma esitano a manifestarla per paura di esser fulminati dai vertici dell’Associazione, che a sua volta governa il Csm.

  

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Noi siamo molto indipendenti, coraggiosi e polemici verso il potere politico, semplicemente perché non può farci nulla. Ma siamo timidi e verecondi davanti al Csm, che ha in pugno le nostre promozioni, i trasferimenti, e i destini disciplinari. Dato che ritengo di avere buone credenziali di dissidenza anticorporativa, posso dire che oggi la separazione delle carriere è in realtà un problema secondario, che non merita di invelenire ulteriormente i rapporti tra Parlamento, avvocati e magistrati. Questo perché l’urgenza più immediata è ridare alla giustizia un minimo di efficienza, prima ancora di realizzare la parità tra le parti processuali. Mi spiego meglio. L’efficienza della giustizia è, sotto il profilo logico, prioritaria rispetto alla sua equità. Una giustizia efficiente può anche essere ingiusta, come hanno dimostrato i regimi assoluti; ma una giustizia inefficiente è sempre ingiusta, come qui abbiamo ripetutamente dimostrato. Quindi, l’efficienza è condizione necessaria, anche se non sufficiente, a una giustizia giusta. Orbene, la separazione delle carriere non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con il funzionamento celere e incisivo della macchina giudiziaria.

  

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Giuliano Pisapia. Le riconosco il coraggio di aver ammesso, da magistrato, come dietro la chiusura della sua categoria alla separazione delle carriere ci siano anche questioni di vantaggi pratici, non solo granitiche convinzioni ideali. E anch’io le confesserò qualcosa. Da uomo politicamente schierato, so che è stata proprio la mia posizione su quest’argomento a spingere le correnti “di sinistra” della magistratura, soprattutto a livello di vertice, ad attaccarmi politicamente e ad accusarmi di fare “il gioco del nemico”. Non per questo, ovviamente, ho cambiato opinione, convinto come sono che la qualità e l’equità di qualsiasi processo presupponga necessariamente la terzietà del giudice. La separazione delle carriere (chiamiamola anche in altro modo, l’importante è il risultato) è necessaria anche per creare una maggiore fiducia dei cittadini nelle decisioni di chi ha il difficile, e delicato, compito di giudicare altri uomini, perché “la moglie di Cesare deve anche apparire, oltre che essere, al di sopra di ogni sospetto”. E anche un bambino capisce che l’arbitro non può una volta indossare la casacca nera e l’altra la divisa del giocatore.

 

La questione dovrebbe essere evidente per chi non guardi attraverso lenti deformanti ed è anche dannatamente seria e sostanziale, in quanto investe aspetti che vanno dalla parità delle parti alla separazione dei poteri. Se il giudice ha il potere-dovere di giudicare; se il pubblico ministero ha il potere-dovere di svolgere indagini e (se ve ne sono i presupposti) sostenere l’accusa nel processo, non può che derivarne, conseguentemente, che chi ha il compito di accusare non può avere anche quello di giudicare. Non dubito dell’onestà intellettuale e della soggettiva imparzialità dei singoli giudici; il fatto è che solo l’effettiva terzietà di chi deve decidere tra tesi diverse, e spesso contrapposte, può dare ai cittadini la necessaria fiducia che chi giudica sia effettivamente al di sopra delle parti. Voci autorevoli nei lavori della Costituente hanno sostenuto questa tesi, condivisa, in tempi non sospetti, da giuristi che hanno illuminato il cammino della democrazia non solo nel nostro Paese. Da Montesquieu – che considerava un vero e proprio abuso il fatto che gli stessi soggetti potessero essere juge et accusateur – a Tocqueville, fino a Calamandrei, il quale riteneva necessario evitare “un pubblico ministero totalmente privo di controllo”.

 

Anche Giovanni Falcone ha riconosciuto che, siccome il nuovo Codice (quello che chiamiamo ancora nuovo, anche se ha vent’anni) attribuiva un ruolo di parte al pm, sarebbe stato necessario adattarsi “al nuovo ruolo di non giudice”. Consapevole delle difficoltà, sosteneva comunque che “bisogna arrivare” alla separazione delle carriere, perché “la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni, e quindi le attitudini, l’habitus mentale, e le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi”. Cito ancora Giovanni Falcone: “Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura”. Tra i tanti giuristi autorevoli che si sono espressi a favore della separazione delle carriere voglio ricordare Giuliano Vassalli, partigiano durante la Resistenza, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale e Giovanni Conso, già vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale e attualmente presidente dell’Accademia dei Lincei.

 

Recentemente ha preso posizione a favore della separazione delle carriere l’Associazione tra gli studiosi del processo penale, che riunisce i professori ordinari di procedura penale. Potrei continuare, ma è indispensabile fare chiarezza: separazione delle carriere non significa affatto dipendenza del pm dall’esecutivo. Anzi chi è per la separazione delle carriere sarebbe tra i primi a contrastare qualsiasi tentativo di limitare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura. Ecco perché sbaglia, o non conosce la materia, chi sostiene che l’obiettivo sia quello di indebolire, se non addirittura cancellare, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; mentre è in mala fede chi fa risalire tale proposta a Licio Gelli o alla P2, accusando gli attuali sostenitori della separazione delle carriere di portare avanti il programma della loggia massonica segreta. Da uomo di sinistra mi è difficile capire perché si è lasciata al centrodestra una simile battaglia, sostenuta, in passato, dai più autorevoli giuristi democratici. La parità delle parti, il diritto di difesa, il diritto a un giudizio equo sono state da sempre bandiere, oggi purtroppo spesso ammainate, della sinistra.

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È ora di uscire dalla logica delle contrapposizioni frontali che impediscono qualsiasi cambiamento e di guardare con metodo laico anche a quanto avviene all’estero: in Spagna e in Portogallo le carriere di giudici e inquirenti sono separate e chi conosce quella realtà sa bene che la giustizia funziona meglio che da noi; in Germania, la formazione di giudici, pubblici ministeri e avvocati è unica, la separazione avviene quando si incominciano ad esercitare le diverse funzioni: eppure il funzionamento della giustizia in quel Paese è, sempre di più, preso come esempio da molti. Piuttosto, è incontestabile che la separazione delle carriere è uno dei presupposti della parità delle parti, sancita dall’art. 111 della Costituzione. Solo un giudice equidistante può garantire un reale contraddittorio e verificare, senza pregiudizi, la validità della diverse tesi prospettate dall’accusa e dalla difesa. Una soluzione potrebbe essere quella di una formazione comune, post-laurea, per chi intende entrare in magistratura oppure esercitare la professione di avvocato. Una formazione comune sarebbe preziosa, indipendentemente dalla strada che poi si sceglierà, e sarebbe anche utile a indirizzare chi ancora non ha fatto una precisa scelta. Ma, poi, le strade debbono separarsi, le carriere anche.

 

Non è possibile che chi giudica sia collega di una delle due parti che si confrontano e si scontrano nel processo. Diversi sono i ruoli, diversa la professionalità. (…) Quelli che potrebbero fare qualche cosa – i giuristi, gli avvocati e i magistrati che non difendono interessi corporativi,  i parlamentari che non sono succubi di Berlusconi o quelli che, al contrario, non hanno costruito sull’antiberlusconismo la loro carriera politica – devono abbandonare la rigidità delle rispettive posizioni e aprirsi al dialogo. Devono uscire da una logica che li rende impermeabili a qualsiasi positiva proposta concreta, prigionieri del pregiudizio per cui, se la proposta proviene da destra accettarla vuol dire prepararsi all’“inciucio” e, se viene da sinistra, è considerata minata alle fondamenta dall’obiettivo di far fuori per via giudiziaria il capo del governo. Bisogna dirlo con chiarezza: la giustizia non è né dei magistrati, né degli avvocati; né di destra né di sinistra, anche se, spesso, magistrati e avvocati, destra e sinistra propongono ricette profondamente diverse. Eppure sono convinto, anche sulla base della mia esperienza, che vi sono riforme sulle quali è possibile trovare un ampio consenso se si riuscirà a emarginare chi strumentalizza la giustizia per fini che, con la giustizia, nulla hanno a che vedere. So bene che la strada è stretta. Ma se ci si mettesse intorno a un tavolo, isolando sia chi usa il Parlamento per fini personali, sia chi urla, strepita, insulta, ma nulla fa di concreto, molte di queste riforme potrebbero diventare realtà. Certo, per poterci arrivare bisogna essere capaci di fare alcuni passi indietro rispetto a proprie posizioni sclerotizzate e cercare, nelle proposte di altri, spunti che si possano condividere. Un solo paletto deve essere posto come condizione irrinunciabile: nessuna legge per favorire qualcuno, tutte le leggi nell’interesse dei cittadini.
 





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