Ok, il prezzo è ingiusto

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Oggi le occasioni per essere triggerati da un’ingiustizia di prezzo sono infinite (siamo oggetto di 33.000 messaggi pubblicitari al giorno, e molti di questi propongono un prezzo) e inoltre ne subiamo un’esposizione selettiva e trasformata in storytelling attraverso creator e algoritmi. Alcuni di questi prezzi “dinamici” infatti attraggono una quantità di attenzione sproporzionata rispetto ad altri. Sembrano essere divisivi soprattutto nell’intrattenimento: forse più si tocca la cultura più “ci fa strano” la disparità sui prezzi? Una sala cinematografica di Milano nel 2016 aveva messo in vendita i biglietti a un prezzo che variava dinamicamente tra i 4,50 e gli 8,50 euro. Contava l’orario della proiezione, l’anticipo con cui si acquistava il biglietto, la tipologia di film, la reputazione degli artisti, le recensioni del film e altre decine di fattori non specificati, sulle quali si erano ovviamente scatenate le congetture più bizzarre. Dopo un anno, a leggere i resoconti sulla stampa, il risultato sembrava essere positivo, ma oggi, provando a prenotare nella stessa sala, il sistema mi propone la visione pomeridiana di Parthenope a un piuttosto salato (è la mia percezione, ovviamente) ma uguale-per-tutti prezzo di undici euro. E così torniamo all’inizio, all’ultima tournée di reunion degli Oasis, con la rivolta che ha toccato il livello di guardia. E alla fine pure loro, le due star di Manchester, dopo aver fatto ottimizzare gli incassi nelle prime date con prezzi dinamici che aumentavano in modo inversamente proporzionale alla quantità di posti in vendita, hanno deciso di abbandonare il sistema (e di magari alzare i prezzi per tutti, equamente). E finiamo in Australia, in cui li si vuole addirittura vietare: il primo ministro australiano, Anthony Albanese, dopo che i prezzi dei concerti dei Green Day in Australia, partiti da 100 dollari sono arrivati fino a 500, si è inchinato ai tumulti digitali. 

Alla catena Wendy’s, negli Stati Uniti, alle prese con il tentativo di rendere i prezzi dinamici, è andata ancora peggio. Dopo aver introdotto senza clamore prezzi diversi tra weekend e settimana, giornali popolari come Daily Mail e New York Post, da sempre sensibili agli umori delle persone, hanno fiutato lo scoop, mettendo nel mirino l’avido aumento dei prezzi “che specula sulla fame delle persone”. Poco importa alla fine che Wendy’s abbia giustificato la mossa con “non stavamo pianificando di aumentare i prezzi durante i periodi di alta domanda, ma di abbassare i prezzi durante i periodi di bassa domanda”, e che potrebbe pure essere vero. Ma si sa, siamo più propensi ad arrabbiarci nel vedere i prezzi salire alla domenica, rispetto a essere relativamente felici nel vederli scendere al mercoledì pomeriggio. Tutto dipende da come ci viene presentata la cosa, dal suo framing. Non ci sono shitstorm perché il Roadhouse abbassa le ribs al martedì sera.

Non è estranea alla crescente ostilità online verso il prezzo dinamico una mitologizzazione del ritorno a un’epoca in cui il neo-liberismo digitale non aveva ancora pervaso le nostre vite (parafrasando il Douglas Coupland di Memoria Polaroid). Ed è parte di questa arcadia immaginaria anche il prezzo fisso e uguale per tutti come forma di “giustizia economica”, una specie di neo-socialismo. Un sogno appunto: in mancanza di parità nel redditi però la politica del “prezzo giusto” si rivela illusoria. Non importa tanto che il prezzo sia uguale per tutti se sei nella situazione della signora descritta da Annie Ernaux, quanto il reddito che puoi spendere in tranquillità. E questo concetto di giustizia ignora che, come sostengono alcuni economisti, la logica del prezzo dinamico potrebbe addirittura favorire il consumatore con minore potere di spesa.

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In un’era in cui il prezzo non sarà più controllabile e memorizzabile, determinato da mille variabili e influenze, personalizzato su di noi e sul contesto, resta la domanda di come convivere con un sistema con gli stessi paradossi dell’era delle piattaforme: affrontare il prezzo dinamico da apocalittici o da integrati? Chiuderci nei nostri browser come nuovi bunker digitali sperando di non farci intercettare e spuntare il prezzo anonimizzato, o accettare come inevitabile il prezzo fluido, personalizzato, incluso di scambio dei nostri dati personali? Non credo di essere apocalittico nel credere che il dynamic pricing rappresenti la massima espressione del capitalismo digitale moderno: un capitalismo che sposta il baricentro dal mercato collettivo a quello individuale.

Ogni consumatore diventa un micro-mercato a sé stante, a cui comunicazione, advertising, prodotto e infine il prezzo si adattano volta per volta. E il prezzo dinamico alla fine, non è altro che uno specchio che ci mette di fronte alla riflessione sul valore che diamo alle cose, sullo stato del nostro potere d’acquisto, e, a volte, sulla nostra idea di equità. Ogni volta che sorge un polemica online attorno al prezzo – che sia un aumento “ingiustificato”, una speculazione “ingiusta” o un costo “nascosto” –  significa nient’altro che in quel momento ci siamo accorti che il sistema sta giocando con noi e che, alla fine, non è poi così differente dalla sfida quotidiana della pensionata con il suo supermercato. 





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